ARMANDO BALESTRINO - BATTAGLIONE BAFILE
Data: 27-02-2005Autore: MAURIZIO BALESTRINOCategorie: TestimonianzeTag: #aprile 1944, italia, san-marco
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Il fronte di Cassino

Il “San Marco” arrivò sul fronte di Cassino provenendo dalle basi di addestramento in Puglia. Il trasferimento richiese cinque giorni, dapprima in ferrovia e poi a marce forzate (un’altra strana coincidenza con la canzone degli alpini: “…dopo tre giorni di strada ferrata, ed altri due di lungo cammino…”). Finalmente arrivarono a destinazione in un giorno di pioggia. Mio padre era al comando di un’unità (devo confessare che non so con quale termine militare venisse classificata, se plotone, compagnia, pattuglia, o altro). Appena giunti a destinazione, stanchi per il lungo trasferimento a piedi su strade di montagna sotto la pioggia, i “marinai alpini” furono raggiunti da diversi camion con del materiale da scaricare. Papà ebbe un moto di sconforto. Raccontava sempre che considerò l’idea di rifiutarsi di costringere i suoi uomini, stremati dalla marcia, a scaricare gli automezzi. Esternò questa sua intenzione al suo aiutante. Questi era un sottufficiale siciliano, di cui papà, raccontando queste vicende in tarda età, ha più volte ricordato il nome. Purtroppo io che oggi scrivo queste note non lo ho mai registrato. Il sottufficiale era molto legato al sottotenente (papà diceva con gratitudine “mi voleva un bene…”), e visto l’imbarazzo del suo superiore decise di trarlo d’impaccio. Gli disse: “Signor tenente, lasciate fare a me”, poi si alzò in piedi ed esortò i marinai: “Avete sentito cos’ha detto il tenente? Bisogna scaricare quei camion!”. I camion vennero scaricati [Nota - Il grado di papà era “sottotenente”, tuttavia pare che il prefisso “sotto” venisse sistematicamente omesso.].
Quando c’entrava il dovere, papà non era affatto tenero né con se stesso né con gli altri. Diversi anni dopo scrisse di se stesso in un curriculum vitae “possiede spiccate capacità di comando”, ed era vero. La sua esitazione, almeno iniziale, nell’ordinare lo scaricamento dei camion la dice lunga su come dovevano essere fisicamente esausti gli uomini al termine del trasferimento (e quanto carichi fossero i camion).
Nei giorni successivi il “San Marco” si sistemò nel settore di sua pertinenza lungo l’alto corso del Rapido. Dalla loro zona di spiegamento i marinai potevano vedere, a valle sulla sinistra, la montagna su cui sorgevano i ruderi dell’Abbazia. Sentirono raccontare di terribili difficoltà che nei mesi precedenti avevano impedito agli Americani di attraversare il Rapido più a valle. Ben consapevoli dell’assurdità dello scherzo, ma con giovanile voglia di ridere, più volte scherzarono fra di loro di come era invece facile attraversare il Rapido: nel loro settore infatti questo fiume era stretto e facilmente guadabile.
Altrove si può leggere con completezza quale fu l’impiego del Reggimento “San Marco” sul fronte di Cassino [Nota - Nei resoconti su quel periodo l’unità viene quasi sempre indicata come “battaglione Bafile”. Ciò è tecnicamente corretto, tuttavia papà ne ha sempre parlato come “Reggimento San Marco”. Anzi, solo verso la fine della sua vita mi disse di essere stato in forza al battaglione “Bafile”.].

Mio padre proveniva dalla specialità del Genio Navale (all’8 settembre ‘43 stava seguendo il corso di studi che l’avrebbe condotto qualche anno dopo a laurearsi in Ingegneria Navale), perciò fu impiegato in compiti tecnici e di collegamento. Il suo compito consisteva nel garantire l’efficienza delle comunicazioni, che si svolgevano principalmente via cavo e dovevano spesso essere riparate o preparate “ex novo”. Un altro compito che gli venne affidato fu di organizzare non solo i collegamenti ma anche i rifornimenti delle postazioni avanzate. Per fare ciò dovette studiare con attenzione la mappa delle postazioni e predisporre un tragitto che uomini e muli potessero nottetempo seguire per far giungere cibo e munizioni alle postazioni avanzate del fronte. Il fronte nell’alta valle del Rapido (settore Valvori-Monte Cicurro e zone limitrofe) era costituito da postazioni isolate e avanzate, vicine ad analoghe postazioni nemiche. Le linee di collegamento erano esposte e in vista delle artiglierie nemiche. L’attività si svolgeva prevalentemente di notte. Gli uomini guidavano i muli lungo i sentieri di montagna, fermandosi secondo tappe prestabilite alle varie postazioni da rifornire. Prima della partenza delle missioni veniva decisa, e comunicata agli uomini, una parola d’ordine, ogni giorno diversa, con relativa controparola. Parola e controparola d’ordine cambiavano ogni giorno, per ovvi motivi di protezione. Entrambe erano in inglese (papà ricordava le coppie “Beer” - “Bottle” e “Tobacco” - “Pipe”), da cui si può facilmente concludere che il “San Marco” riforniva non solo le proprie postazioni avanzate, ma anche quelle limitrofe degli alleati anglofoni. Le vedette del posto da rifornire, visti gli uomini in avvicinamento, esclamavano improvvisamente la parola d’ordine, a cui bisognava rispondere con la controparola. Quindi il posto veniva rifornito e il viaggio proseguiva. Lo scambio delle parole d’ordine avveniva nel buio della notte e doveva essere velocissimo (la sentinella dicendo la parola d’ordine aveva esposto la sua posizione, e se gli uomini in avvicinamento fossero stati nemici ne avrebbero avuto un vantaggio non da poco). A volte successero incidenti con chi esitava a profferire la controparola d’ordine, o peggio si sbagliava offrendo quella del giorno prima. Molto spesso papà si recava personalmente ad effettuare la missione di rifornimento. Partiva dopo il calar delle tenebre in compagnia di un aiutante (anche di questo chi scrive ha sentito tante volte il nome; non ne sono sicuro, ma mi sembra di ricordare che fosse un Capo di nome Prin [Nota - Come è noto, “capo” è un grado di sottufficiale della Marina.]).
La marcia era resa difficile sia per il terreno montagnoso (non esattamente quello cui i marinai erano abituati), sia per l’oscurità della notte. Come a volte fanno anche gli alpini, mio padre spesso si attaccava alla coda del mulo per farsi aiutare nella progressione in salita. Il percorso era assai lungo, nel ricordo papà lo stimava 20-30 chilometri fra andare e tornare. Tornavano alle prime luci dell’alba o nel cuore della notte. Una mattina, tornando all’accampamento, lo trovarono semidistrutto da un attacco nemico. Forse un aereo nemico (una “cicogna”, come anche a Cassino veniva soprannominato un certo tipo di aereo tedesco) nella notte aveva mitragliato e bombardato il campo, cosa che poteva avvenire nelle notti di luna piena. Oppure l’artiglieria tedesca aveva bombardato il campo. Molti marinai erano morti. Il cervello di un marinaio era fuoriuscito dal cranio e giaceva sull’erba. Il giaciglio su cui mio padre avrebbe dormito se non fosse uscito in missione era crivellato di colpi, e lui stesso sarebbe morto se fosse rimasto al campo. Quella fu la prima di diverse occasioni in cui papà ebbe la chiara sensazione che Dio l’avesse protetto, salvandogli la vita. Le fonti storiche confermano che i Tedeschi bombardarono più volte i diversi accampamenti del “San Marco”, sia quelli in prima linea sia quello della compagnia comando, nella valle dell’Ancina.

Un’altra volta mio padre e il suo aiutante, tornati dopo la missione, si buttarono a dormire. Dormirono molto profondamente per quanto restava della notte e per un po’ del mattino. Con stupore, al risveglio trovarono il campo in trambusto e pieno di bossoli. Mentre papà e il suo aiutante dormivano i Tedeschi avevano attaccato il campo e i marinai li avevano respinti dopo una vivace battaglia. I due erano tanto stanchi che non si erano accorti di niente. Rimproverarono i compagni per non averli svegliati, e si sentirono dire che dormivano così bene che sarebbe stato un peccato svegliarli. Quest’ultimo episodio avvenne a Mulino del Vado. E’ interessante notare che alcuni resoconti di quel periodo citano un episodio in cui i marinai respinsero un attacco tedesco proprio a Mulino del Vado.

Un altro episodio che mio padre ricordava, assai meno drammatico dei precedenti, si riferiva ad una volta che egli uscì al comando di un’unità in una zona impervia e relativamente remota. Poco dopo, un marinaio notò un tedesco che dall’alto li osservava. Era acquattato sul fianco della montagna, un po’ più in alto dei marinai, immobile. Si distingueva chiaramente il profilo del caratteristico elmo. Inizialmente (forse anche un po’ troppo generosamente) papà ordinò di non sparagli: il tedesco non aveva compiuto atti ostili, e si limitava ad osservarli. A papà non sarebbe piaciuto uccidere un uomo a sangue freddo. Lo tennero d’occhio a loro volta. Passò un po’ di tempo, il tedesco era sempre lì. Mio padre decise che comunque non poteva tollerare all’infinito che un nemico li spiasse, e a malincuore si risolse all’azione violenta. Imbracciò lui stesso il fucile e prese accuratamente la mira. Sparò due colpi, e tutti furono certi che l’avesse colpito. Pur tuttavia il tedesco continuava a non muoversi. Interdetto, papà mandò due marinai a osservare più da vicino lo strano ospite. Ordinò che si arrampicassero fra le rocce, salendo uno alla destra l’altro alla sinistra del tedesco. I marinai salirono, attenti e con le armi pronte. Dopo un po’ tornarono ridendo: il misterioso osservatore era un’illusione ottica. Una roccia vista dal basso dava l’impressione di un tedesco dal tipico elmetto acquattato contro la montagna. L’illusione doveva essere molto suggestiva, perché tutti ne erano rimasti ingannati. Nei suoi racconti dell’episodio, papà non diede mai nessun indizio su dove si svolse questo fatto. Forse neanche lui lo poteva ricordare con certezza. Io sono sicuro che da qualche parte, nelle montagne a nord-est di Cassino intorno all’alta valle del Rapido, c’è ancor oggi una roccia che vista dal basso ricorda un soldato tedesco della Seconda Guerra Mondiale in atteggiamento di osservazione. Se qualcuno potesse dirmi dov’è, saprei dove mio padre e i suoi marinai uscirono in missione in un giorno della primavera 1944.

Il Reggimento “San Marco” (come detto presente a Cassino con l’unico battaglione allora pronto, il “Bafile”) era inquadrato nell’8a Armata Britannica, XIII° Corpo d’Armata, alle dipendenze della 2a Divisione Neozelandese. Un giorno mio padre fu inviato con un messaggio al Comando Neozelandese. Mentre si avvicinava al comando sentì alle sue spalle il fischio di uno shrapnel che si avvicinava. I tiri di artiglieria in arrivo erano all’ordine del giorno, e anche i marinai avevano presto imparato a distinguere il diverso suono che i diversi proiettili facevano avvicinandosi. Quello era uno shrapnel, e si dirigeva dritto su di lui. Non c’erano ripari nelle vicinanze, così papà si mise a correre cercando di entrare nel Comando prima che lo shrapnel lo raggiungesse. Quando era ormai a pochi metri lo shrapnel esplose. Si sentirono volare le schegge tutto intorno, colpendo e perforando la vegetazione. Papà si buttò a terra, ma si sentì sollevare da una forza enorme, che lo scagliò contro il muro dell’edificio. Per fortuna l’esplosione, scagliandolo contro il muro, lo buttò esattamente contro l’entrata, che era aperta. Quindi papà terminò il suo volo atterrando senza un graffio dritto dritto nel Comando Neozelandese. Fu sorpreso di notare che la stanza era vuota. Scrivanie erano allineate lungo i muri, senza nessuno che le utilizzasse. Chiamò, ma nessuno rispose. Solo dopo lunghi secondi, lentamente e con esitazione un elmetto a padella spuntò da dietro una scrivania, poi un altro ancora, e finalmente tutto il Comando emerse da dietro le scrivanie dove si era rifugiato per proteggersi dall’esplosione. Questa fu un’altra delle occasioni in cui papà riteneva che il buon Dio gli avesse voluto salvare la vita.

Nel settore più a valle venne l’ora dell’assalto decisivo alle difese di Cassino. Papà ricordava con impressione l’eccezionale preparazione di artiglieria che precedette l’assalto. Videro per ore e ore il terreno intorno ai ruderi dell’Abbazia ribollire di esplosioni, “come una pentola di fagioli che bolliva”. Era uno spettacolo mai visto, imponente e impressionante. Infine l’artiglieria cessò di sparare. Mio padre mi raccontò circa la conquista dell’Abbazia una storia che circolava fra i soldati a quell’epoca, e che tutti (compreso lui) credevano vera. Mi raccontò dunque che già diverso tempo prima i Polacchi erano giunti a poche decine di metri dai ruderi dell’Abbazia, che i Tedeschi avevano allora alzato bandiera bianca salvo poi falciare a tradimento con la mitragliatrice i Polacchi che si avvicinavano per raccogliere la loro resa. Il racconto continuava dicendo che, memori di questa condotta fedifraga, i Polacchi chiesero di poter essere nuovamente loro a portare l’assalto finale e che, giunti finalmente nell’Abbazia diroccata, si vendicarono uccidendo tutti i Tedeschi che vi trovarono. Papà mi raccontava questa storia con convinzione, al punto da aggiungere che secondo lui i Tedeschi che furono uccisi non erano certamente quelli che si erano comportati slealmente la prima volta, perché (diceva) nel frattempo li avevano sicuramente avvicendati. Papà fu convinto di questa storia, che evidentemente circolava fra i soldati dopo la presa di Montecassino, fino a quando non cominciammo, io e lui, a leggere i resoconti storici della battaglia, dove naturalmente non c’è nulla di tutto ciò. Allora accettò di essere rimasto per anni vittima dell’inganno di una leggenda. Rimase a me e a lui la curiosità di come la leggenda poteva essere nata. Ragionammo che forse il fatto che i Polacchi erano giunti, tempo prima dell’evacuazione dell’Abbazia, a pochissima distanza da essa salvo non aver potuto tenere quelle posizioni ed esservi stati in gran parte annientati dal fuoco tedesco poteva, in teoria, essere stato travisato fino a essere riferito nel modo distorto che sopra ho riportato. Aggiungerò che anche il particolare che i Tedeschi erano stati nel frattempo avvicendati era evidentemente una supposizione (consapevole, fatta da mio padre) basata sulle usanze abituali, dove i reparti in prima linea vengono anche di frequente avvicendati. Come sappiamo, i difensori tedeschi di Montecassino non vennero in realtà mai avvicendati. Per completezza, infine, dirò che dopo la morte di papà ho letto nel libro “L’esercito del sud” di Antonio e Giulio Ricchezza (Mursia 1973, pag. 72-73) un resoconto del seguente tenore: “Più tardi [cioè dopo il 14 dicembre 1943] una pattuglia di bersaglieri al comando del capitano Natale, si scontrò nella zona est di Colle San Giacomo con un gruppo esplorante tedesco. I nemici, vistisi sorpresi, ricorsero al solito trucco. Due o tre di essi avanzarono con le mani alzate in segno di resa mentre altri commilitoni si misero all’agguato, armi in pugno, per abbattere gli italiani non appena questi si fossero fatti avanti allo scoperto per prendere in consegna i prigionieri; gli italiani, però, reagirono energicamente, arrivando a catturare quattro uomini. Una tattica abituale questa dei nemici, come si è detto”. Naturalmente non c’è nessuna indicazione che i difensori di Montecassino siano mai ricorsi a questi trucchi. Tuttavia, questo è quanto ho potuto appurare circa la possibile origine di quella storia che mio padre udì al fronte e che per lunghi anni credette vera.

Dopo la caduta della linea Gustav al “San Marco” venne ordinato di muoversi, allontanandosi per sempre dal fronte di Cassino. Ormai la linea Gustav non esisteva più e la campagna d’Italia si rivolgeva verso il Nord. L’ultima notte (la notte sul 27 maggio 1944) faceva caldo e i marinai dormirono sotto il cielo stellato. Papà si addormentò su quello che era il suo lussuoso giaciglio: una branda di metallo. Poco dopo l’alba si sentì svegliare: “Signor tenente, scusi, signor tenente!”. Era un contadino. Gli chiese se era vero che l’indomani sarebbero partiti. Papà disse di sì. Gli chiese ancora se avrebbe portato con sé la brandina su cui dormiva. Papà disse di no, che non gli sarebbe stato possibile. Allora il contadino gli chiese il permesso di aspettare il suo risveglio per poter prendere la brandina. Permesso accordato. Papà si riaddormentò. Al risveglio si trovò ancora vicino il contadino, che lo aveva vegliato fino allora in rispettoso silenzio. Il contadino si caricò sulle spalle la brandina e sempre in silenzio si allontanò.

Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.

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