"FIGHTING PAISANO" - Alfonso Felici, la straordinaria storia di un uomo qualunque
Data: 31-03-2003Autore: ROBERTO MOLLEListe: ARTICLES IN ENGLISHCategorie: TestimonianzeTag: bibliografia, italia, off-topic, veterani-reduci

"FIGHTING PAISANO" ALFONSO FELICI, LA STRAORDINARIA STORIA DI UN UOMO QUALUNQUE

Tre Medaglie d'Argento al Valore Militare, la Croce di Ferro di Seconda Classe, la Croce di Guerra Francese, Stella d'Argento e Stella di Bronzo americane, Encomio Solenne del Congresso degli Stati Uniti d'America. Non è l'elenco di tutte le onorificenze conferibili nella seconda guerra mondiale, ma tutte quelle date ad un solo uomo, per giunta italiano, Alfonso Felici, classe 1923.

1992

Il 14 settembre 2002 nel suo paese natale, Villa S.Stefano (FR), vi è stata la presentazione della sua biografia "Fighting Paisano, gli Alpini mi chiamavano Balilla, i soldati americani Paisano". Alla presentazione eravamo presenti, per l'Associazione, io e Alessandro Campagna. Il libro è veramente appassionante e completo, stupisce veramente constatare la storia militare vissuta da Felici; passato su tutti i fronti della seconda guerra mondiale. Anche la sua conoscenza personale è stata importante, infatti ho verificato che è una persona veramente disponibile e semplice, nel senso più vero del termine.

Sicuramente se la sua storia fosse stata vissuta da un soldato americano, sarebbe stata già oggetto di un film di successo; ma poichè si tratta di un italiano, ancora niente.
Sintetizzare la sua storia in poche parole è veramente impossibile, quindi farò un resoconto cronologico degli avvenimenti, riportando integralmente l'esperienza, a mio avviso, più straordinaria vissuta da Felici, quella che ci fa capire anche la sua grandezza:

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Di seguito ho trascritto integralmente un passaggio della biografia che riporta un episodio degno, da solo, di essere raccontato in un film.

Un Soldato sconfitto ritorna a casa

Arrivai sulla Casilina dopo aver lasciato l'Appia, tutta la zona pullulava di mezzi tedeschi, ed io ero costretto a nascondermi ogni volta che sentivo un rumore di macchine, cercavo di attraversare campi ed orti trovando sempre qualcosa da mangiare, come frutta e pomodori. Ad un tratto sulla Via Prenestina trovai un plotone di fanteria che si era appostato ai lati della strada, erano ben armati e pronti all'intervento. Mi avvicinai e chiesi al Tenente che comandava il plotone notizie sulla situazione. Mi rispose che loro erano fuori da ogni contatto ed attendevano ordini che non arrivavano mai e mi chiese se volevo aggregarmi a loro. Gli risposi che ero un ferito di guerra e che la sera prima ero stato rastrellato per strada con altri soldati e mandato a combattere facendo del mio meglio. Allora mi consigliò di tornare all'Ospedale del Celio anche se per strada avrei corso molti rischi. L'Ufficiale mi assicurò che i tedeschi finora non s'erano visti.

Peregrinai fino a raggiungere una casa abbandonata e dentro vi trovai un sergente di cavalleria che stava mangiando carne in scatola e pomodori. Mi salutò e disse di fermarmi lì per la notte perchè la situazione era caotica. Lui era fuggito dalla caserma "Macao" prima che i tedeschi la occupassero e si trovava disperso. Per quella sera ci addormentammo nella casa abbandonata; a turno facevamo la guardia, avevamo rimediato dei vestiti civili e dei sandali di gomma ed eravamo pronti a scappare ad ogni evenienza. La mattina del 10 settembre era un viavai di soldati italiani che fuggivano in tutte le direzioni. I tedeschi avevano sopraffatto ogni resistenza e tutta Roma era sotto controllo.
Invece di andare da mia cognata Angelina, al quartiere S.Lorenzo, preferii tornare a Villa S.Stefano da mia madre. Dopo sei giorni, camminando fra campi e montagne per evitare di farmi catturare dai tedeschi, finalmente riuscii ad arrivare a casa.
Dopo qualche giorno dal mio ritorno arrivarono i tedeschi, che fissarono il loro comando a San Marco, nel palazzo di Angelino Palombo, nello stesso tempo requisirono i cinque palazzi della Vigna per utilizzarli come ospedale. Cominciarono a pitturare sui tetti il simbolo della Croce Rossa ed internamente attrezzavano le camere con i reparti e le corsie ospedaliere.
I tedeschi non ci disturbarono affatto, dovevamo solo rispettare il coprifuoco ordinato dalla Feldgendarmerie. Odiavo, nonostante tutto, la loro presenza in paese perchè mi ricordava i loro modi crudeli durante la ritirata di Russia. Non si fermavano con i loro camion, e quando noi cercavamo di salirvi ci colpivano le mani con il calcio dei loro fucili.

Villa S. Stefano fu invasa dagli sfollati provenienti da Roma, Frosinone ed altri paesi. Il motivo era che qui i tedeschi stavano allestendo l’ospedale e che, secondo le convenzioni di Ginevra in atto fra Stati belligeranti, il paese non sarebbe stato bombardato.
Durante il giorno, per ingannare la noia, ci riunivamo con gli amici e passavamo le ore seduti sui parapetti dei muretti della Porta a parlare della guerra e dei tedeschi, che rubavano il bestiame per poi macellarlo sotto la Loggia. Ricordo che i maiali venivano spellati e i tedeschi gettavano le cotenne che tutti paesani raccoglievano e mangiavano.
Un giorno arrivò da Roma la famiglia Battistini composta da quattro figlie femmine e due maschi, la madre Armida ed il padre Umberto. Il sig.Umberto era socio di Angelo Leoni,che aveva sposato una donna di Villa S.Stefano, Emilia "Frusina", ed insieme gestivano una carrozzeria vicino via Taranto a Roma.

Il ed il mio amico Vittorio Articoli iniziammo a frequentare le due figlie più giovani dei Battistini, Silvana ed Anna. Io andavo con Anna, diciassettenne, una brunetta con la quale facevo lunghe passeggiate al fiume Amareno. Conobbi la madre e poi il padre Umberto che mi promise un lavoro nella sua carrozzeria a Roma. Ero pazzamente innamorato di Anna!
Presto però gli alleati iniziarono con i loro aerei a mitragliare la strada Priverso – Amareno, dove si muovevano i convogli di rifornimento tedeschi verso il fronte. Vedevamo i caccia alleati volare in basso nella valle dell’Amareno e colpire con le pallottole traccianti i mezzi tedeschi che prendevano fuoco, ma gli alleati non bombardarono mai l’ospedale rispettando il trattato di Ginevra. Intanto arrivavano i primi feriti tedeschi. Molti di loro morivano e venivano tumulati nel nostro cimitero dove si vedevano, insieme alle croci dei nostri cari, le diverse croci nere con la svastica con sopra l’elmetto.
Giorno dopo giorno la situazione cambiò considerevolmente, giacché le SS arrivarono all’improvviso, facendo prigionieri gli uomini che poi portavano a lavorare alle fortificazioni che i tedeschi stavano erigendo sul fronte di Cassino. Molti miei amici furono catturati. Noi rimasti alla larga, decidemmo di rifugiarci nelle grotte e negli anfratti della montagna.

Un giorno Anna venne a trovarmi nel mio rifugio e vidi che piangeva. Gli chiesi cosa fosse successo e mi disse che suo padre Umberto e il suo socio Angelo Leoni erano stati arrestati dai tedeschi a Roma. Mi raccontò che, mentre guidavano un camioncino di loro proprietà, erano stati fermati ad un posto di blocco dai tedeschi che, dopo averli perquisiti, avevano trovato armi e munizioni dirette ad un gruppo partigiano romano. Furono arrestati e trasferiti al carcere di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena, in attesa di giudizio. Naturalmente sarebbero stati giudicati dalla Corte Marziale e fucilati per tradimento.
Insieme alla sig.ra Battistini e alla sig.ra Leoni andammo a Roma per vederci chiaro. La prima cosa fu parlare con la persona che aveva informato le signore dell’arresto dei loro mariti. Questi era Mario Muzi, un amico di famiglia, il quale ci rispose con parole evasive, ma io lo costrinsi a dire tutta la verità. Su mia insistenza fissò un appuntamento con una persona che ci avrebbe spiegato tutto. Il giorno dopo io e le signore, fummo accompagnati da Mario Muzi in un appartamento sul Lungotevere della Vittoria. Là ci ricevette un distinto signore, il dottor Ailati, il quale assicurò alle donne che si sarebbe rivolto a due grandi avvocati per la difesa dei loro mariti presso il Tribunale militare Tedesco, ovviamente senza dover pagare una lira per la parcella. Nel suo discorso il dottor Ailati non fu troppo chiaro sul perché Battistini e Leoni erano stati indotti a trasportare quel pericoloso carico sul loro camioncino. Il dottor Ailati ci disse che qualcuno li aveva ben pagati per trasportare quel materiale e che loro due erano ignari del pericoloso carico, credevano che si trattasse di merce da borsa nera. Io non ero convinto di tutta quella storia e gli domandai per quale motivo volevano rivolgersi a due avvocati di nome, pur sapendo che le donne non avrebbero potuto pagare la parcella. La risposta fu: "lo facciamo per motivi umanitari!".

Allora intuii e chiesi al dottor Ailati se per caso loro erano membri di qualche gruppo clandestino che combatteva i tedeschi. Colsi nel segno, gli dissi che anch’io odiavo i tedeschi e gli raccontai tutto il mio passato da Alpino. Il dottor Ailati diventò più convincente e rispose: "anch’io ero un Alpino, capitano del 5°".

Si fidò e mi confessò che era il responsabile del C.N.L. (Corpo Nazionale di Liberazione) e che potevo contare su di lui. La difesa di Battistini e Leoni fu sostenuta dagli avvocati Camellutti e Sotgiu e dalla nostra parte avevamo un giudice facente parte del tribunale tedesco.

Purtroppo le cose non andarono bene e, dopo la Sessione, il tribunale tedesco trasferì il caso al tribunale militare tedesco di Bologna. Fu il peggior momento della mia vita. Due famiglie senza speranza, tredici figli con la paura che i loro padri sarebbero stati fucilati da un plotone di esecuzione.
Mi ricordai che a casa, a Villa Santo Stefano, avevo la divisa tedesca che mi era stata data a Vienna all’ospedale militare tedesco, inoltre ero in possesso dell’attestato della Croce di Ferro Tedesca di 2ª classe, conferitami sul fronte russo.
Ritornato a casa misi in uno zaino la divisa tedesca, nascosi gli stivali e dissi a mia madre che dovevo andare a Roma a portare generi alimentari da vendere a borsa nera. Baciai Anna e dissi che andavo a Roma per vedere se potevo fare qualcosa per la liberazione del padre.

Non sapevo cosa avrei fatto, ma il mio cervello era alla ricerca di qualche idea per aiutare quei due poveri diavoli. Arrivato a Roma mi precipitai dal dottor Ailati pregandolo di procurarmi un falso permesso della Werhmacht a mio nome, quale soldato che raggiungeva un ospedale nel nord Italia. Volli spiegargli che con un tale permesso, parlando il tedesco, decorato con il nastro distintivo della Croce di Ferro e vestito con la divisa della Werhmacht sarei potuto entrare a visitare i prigionieri alle prigioni di Castelfranco Emilia e saperne di più. Ammirò il mio coraggio e cercò di dissuadermi per il rischio che correvo. Alla fine vinsi io.
Il caso fu sottoposto dal C.N.L. all’Intelligence Service americano, ed in una settimana mi fu consegnato una atto di scarcerazione per Battistini e Leoni recante la firma falsificata del giudice del Tribunale di Guerra Tedesco di Roma, Richter von Krieg, nel quale era attestato che i due prigionieri erano stati dichiarati innocenti e quindi prosciolti da ogni accusa.

Io avrei dovuto consegnare personalmente quest’atto di scarcerazione al comandante tedesco del carcere di Castelfranco Emilia, incaricato alla riconsegna dei prigionieri.
Ebbi tutti i documenti per affrontare il viaggio, i piastrini di riconoscimento e il libretto di appartenenza alla Werhmacht, intestati al sergente Alekssis Paasikivi di nazionalità finlandese, per coprire il mio strano accento tedesco. Infatti molte persone di nazionalità finlandese, croata, polacca o olandese si erano arruolati nell’esercito tedesco come collaboratori.
Il personale dell’Intelligence Service americano sapeva falsificare documenti e timbri della Werhmacht alla perfezione. Occorreva solo il mio coraggio per consegnarli, visto il rischio a cui andavo incontro.
In due giorni mi diedero un lasciapassare, con tutti i timbri e le firme in ordine, per un ospedale tedesco di Riva del Garda, stampata in una tipografia clandestina. Il dottor Ailati mi disse che, non appena arrivato a Bologna, avrei dovuto contattare un barista di nome Oreste al bar "Industria", in via Guglielmo Marconi, e chiedergli di "Nemo" un altro membro del C.N.L.

L’indomani, indossato la divisa della Wermacht con i gradi di “feldwebel” (sergente maggiore) presi il primo treno per Bologna. Il treno era pieno di soldati tedeschi di ogni arma e qualche civile autorizzato. Durante il viaggio evitavo di parlare e rispondevo solo alle domande usuali. Non ebbi nessun problema ma tremai un pò quando uno della Feldgendarmerie volle vedere il mio "ausweis" (lasciapassare) e, dopo averlo guardato mi chiese "krank?" (malato), ed io gli risposi "ja". Tutto era andato alla perfezione.
Arrivai alla stazione di Bologna nel primo pomeriggio ed un sottufficiale tedesco mi chiese il permesso, glielo mostrai e mi disse che potevo andare a prendere il "“marchverflegung" (viveri a secco).
Vedendo che esitavo, mi accompagnò lui stesso al posto di tappa dove fui rifornito di pane, carne in scatola, margarina e sigarette nonché di un bel timbro sul mio documento. Non credevo ai miei occhi.

Salutato il sottufficiale tedesco che si premurò di dirmi che il treno per Verona sarebbe partito alle sei del pomeriggio dal binario due, subito andai in una toilette per indossare abiti civili e rimettere la divisa tedesca nello zaino. Dopo aver trovato un albergo economico mi recai al bar per vedere "Nemo". Chiesi al barista Oreste di cercarmelo. Questi capì subito e mi pregò di attendere. Più tardi arrivò "Nemo" e mi disse che il dottor Ailati lo aveva informato di tutto. Mi portò in uno scantinato del bar per parlare con sicurezza, ma dopo preferì condurmi nella sua libreria di Via Guglielmo Marconi.
Mentre parlavamo mi spiegò che tutti gli uomini del C.N.L. avevano degli pseudonimi per evitare l’identificazione e quindi anche quello del dottor Ailati non era reale (il dottor Ailati era in realtà l’onorevole Ivanoè Bonomi).
Sul caso Battistini – Leoni mi informò che la prigione di Castelfranco Emilia era guardata da elementi del battaglione "M" (battaglione Mussolini camicie nere), armati fino ai denti. Solo un piccolo commando tedesco era sistemato all’interno e che, oltre ai prigionieri politici, vi erano circa quaranta disertori che non avevano voluto arruolarsi nell’esercito della Repubblica Sociale di Salò.

Successivamente mi premurai di depositare la divisa tedesca nello scantinato del bar dovendo, il giorno dopo, uscire in uniforme per andare al carcere. Era pericoloso uscire dall’albergo giacché vi ero entrato in abiti civili.
Con me avevo due telegrammi che feci trasmettere, con procedura di assoluta urgenza, dall’ufficio postale tedesco tre ore prima in modo da avere il tempo necessario. Questi erano indirizzati uno al direttore tedesco del carcere di Castelfranco Emilia, redatto in lingua tedesca, e l’altro al Prefetto di Modena che aveva la giurisdizione della zona, redatto in lingua italiana.
Entrambi i telegrammi, firmati dal falso colonnello "Truder" comandante tedesco della guarnigione Emilia, ordinavano di eseguire l’ordine di scarcerazione di Battistini e di Leoni e che il feldwebel, Alekssis Paasikivi (io), era autorizzato a prendere in custodia.
Attesi ancora un’altra ora per dare tempo ai telegrammi di arrivare a destinazione, dopodiché presi un taxi che mi condusse a Castelfranco Emilia, davanti al carcere. Una volta giunti dissi all’autista di aspettare fino al mio ritorno e, preso il numero della sua licenza mi avviai verso l’entrata con disinvoltura.
Arrivato al corpo di guardia, ignorando i militi del battaglione "M", mi diressi ad un maresciallo tedesco salutandolo militarmente consegnandogli gli "ausweis". Il maresciallo immediatamente mi condusse davanti al comandante maggiore della guarnigione che salutai con un possente "Heil Hitler".
Questi, dopo aver risposto al saluto, lesse l’ordine di scarcerazione, che gli avevo consegnato, e dopo aver guardato le mie decorazioni mi disse: "Gut soldaten" (bravo soldato), e aggiunse che anche lui aveva partecipato alla campagna di Russia sul fronte Orel. L’interessamento del maggiore sulla campagna di Russia mi rinfrancava facendo scomparire la paura di essere scoperto. Guardando poi il mio libretto di appartenenza alla Werhmacht notò che ero finlandese e mi disse: "Gut Pinne"" (bravo finlandese).
Non posso descrivere la mia ansia e la mia paura per quello che poteva succedere. Per me era più facile combattere in guerra che rischiare la vita in quel modo. In guerra affronti il nemico vedendolo davanti a te ed hai più probabilità di salvarti, invece lì mi trovavo davanti a delle incognite e potevo essere catturato come un topo. Decisi di andare incontro a tutto ciò che mi poteva capitare.

Tutto procedeva bene e ciò significava che aveva ricevuto il telegramma. Dopo qualche istante il maggiore ordinò ad un sottoufficiale di custodia italiano di scarcerare i due prigionieri. Uscii salutando con "Heil Hitler" il maggiore e, seguendo il sottufficiale di custodia, mi preparai ad avere in consegna i due prigionieri.
La tensione divenne intensa quando mi trovai davanti i prigionieri pronti ad uscire. Mi riconobbero, ma con un cenno prepotente ordinai "Schnell, schnell!". Loro capirono che ero lì per liberarli e per questo rimasero impassibili, salvando così anche la mia vita, infatti, sarebbe bastato un segno di euforia o un abbraccio, ed eravamo finiti. Ovviamente loro non sapevano del mio rischioso piano che, fino a quel momento, aveva funzionato perfettamente. In fretta guadagnammo l’uscita e, passando di fronte al maggiore tedesco ed ai suoi soldati, li salutai con un forte "Heil Hitler". Una volta fuori dal carcere trovammo il tassinaro che ancora ci aspettava. Mentre ci avvicinavamo al taxi, dissi ai miei amici di non parlarmi perché poteva essere pericoloso.

I minuti non passavano mai e dissi all’autista di accelerare verso Bologna. Continuavo ad essere agitato e mi aspettavo da un momento all’altro i tedeschi alle calcagna. Non appena arrivammo a Bologna e feci fermare il taxi a cento metri dalla libreria di "Nemo". Diedi quattro mila lire all’autista ringraziandolo e mi diressi da "Nemo" che non credeva ai suoi occhi. Mi disse che ventidue giovani disertori della Repubblica Sociale Italiana, custoditi in quel carcere, erano stati fucilati nel cortile per alto tradimento.
Con una fortuna sfacciata giungemmo a Roma viaggiando in autocarro e in treno. Immediatamente arrivammo a casa di un amico fidato di Umberto Battistini, a Torpignattara, che ci nascose per cinque o sei giorni. Intanto avvisammo il "dottor Ailati" che ci venne a trovare e la cosa più bella che mi disse fu: "sei proprio un bravo coraggioso alpino!". Mi aveva aiutato, in questa missione, anche finanziariamente e senza dirlo era orgoglioso di me.

Non vedevo l’ora di far sapere ad Anna che avevo liberato il padre, ma dovevamo attendere perché i tedeschi erano in agguato.
Un giorno facemmo arrivare al nascondiglio di Torpignattara un nostro amico paesano, Armando de Filippi, nipote di Leoni, soprannominato "nga, nga" per la sua balbuzie. Incaricammo Armando di andare a villa S. Stefano a comunicare la notizia della liberazione alle famiglie Battistini e Leoni ed a mia madre. Ci raccomandammo di dirlo solo a loro e non ad altri. Armando però per l’euforia confidò ad alcuni parenti la notizia. Per quella sua leggerezza tutto il paese venne a conoscenza che io, vestito da tedesco, avevo liberato Battistini e Leoni.
Intanto anche il comando tedesco di Villa S. Stefano seppe di questa rocambolesca liberazione, e subito iniziarono le fasi di investigazione da parte della GESTAPO (Polizia segreta nazista).
Mia madre e mio fratello Antonio furono convocati e sottoposti a duri interrogatori e maltrattamenti con le pistole puntate sulla nuca. Loro però erano all’oscuro di tutto. Dobbiamo ringraziare l’intervento dell’allora Podestà, Luigi Bonomo, che convinse i tedeschi a lasciare in pace i miei, perché loro erano ignari del piano e io avevo agito da solo perché ero innamorato della figlia di Battistini.
Intervennero allora le SS (Schutz-Staffeln. Squadre di difesa, milizia personale di Hitler) che, visionati i documenti che avevo presentato alle carceri di Castelfranco Emilia, si convinsero che ero io l’artefice di tutta la missione, aiutato dalle organizzazioni clandestine della Resistenza, in collaborazione con l’Intelligence Service. Le indagini dei tedeschi oltre Villa S. Stefano si spostarono anche a Roma. Le mogli di Battistini e Leoni dopo aver visto i loro mariti a Torpignattara, tornarono a Villa S. Stefano per non crearci problemi.

Il "dottor Ailati" ci fece cambiare nascondiglio e ci portò nei pressi della via Ostiense. Le SS e la P.A.I. (polizia Africa Italiana), forzarono la porta di casa Battistini in Via Taranto n.132 e quella di Leoni in via dell’Acquedotto Felice n.11, e misero a soqquadro gli appartamenti. Le indagini non trovarono sosta. Noi vivevamo giorni di paura pensando anche ai nostri cari che potevano essere sottoposti a dure torture da parte delle spietate SS.
Notizie da Villa S. Stefano non arrivarono, sapevamo solo che Armando, l’ignaro provocatore della nostra vicenda, era fuggito per allontanarsi dai tedeschi che lo cercavano per interrogarlo.
In questa vicenda fummo sempre assistiti dal "dottor Ailati" con denaro, viveri, indumenti e anche con le sigarette che noi, per la paura di essere catturati, fumavamo in grande quantità.

Un giorno volli rischiare recandomi a Villa S. Stefano per vedere da vicino la situazione. Presi alcuni mezzi sulla Via Casilina e perfino degli autocarri tedeschi, che si fermavano per caricare donne e bambini. Arrivai nelle vicinanze del paese passando fra i boschi e i luoghi meno frequentati dalla gente. Alla Madonna dello Spirito Santo incontrai Ersilia Palombo, la figlia di Augusto di "Carminuccio" e Rosa Iorio "il deto".
Ersilia mi disse subito che i tedeschi mi cercavano dappertutto, e che un paio d’ore prima due soldati avevano chiesto a "B’cailla M’l’naro" (Bicailla Poggiassi) se mi avesse visto da qualche parte. Al paese erano stati interrogati quasi tutti. Chiesi ad Ersilia se, con le dovute precauzioni, poteva avvisare mia madre ed Antonio di venire da me.
Salii su una rupe che si trovava sul terreno di zia Domitilla, di fronte al Santuario della Madonna dello Spirito Santo, ed aspettai. Mentre ero li vedevo le donne che andavano a pregare nella chiesetta. Riconobbi Maria Fasani, Iolanda di Gelsomina, za juccia Mantèlla, za lucciola di Cianno e mia zia e madrina Maria, "la Madonna".

Dopo circa mezz’ora vidi mia madre che scendeva verso il Santuario recitando il Rosario. La chiamai, scesi giù e ci abbracciammo. Anna non fu rintracciabile e pregai mia madre di salutarla. Ebbi il tempo di vedere anche mio fratello Antonio, che era accorso avvisato da Ersilia, il quale mi rimproverò dicendomi: "stronzo ma chi te lo ha fatto fare di rischiare la vita!". Mi abbracciò ugualmente e capì non avevo altra via di scampo visto che ero dentro un gioco molto pericoloso. Li salutai entrambi e ritornai a Roma con i mezzi di trasporto disponibili e sempre con la paura di essere fermato dai tedeschi in qualche posto di blocco. Rientrato nel mio nascondiglio sull’Ostiense comunicai al Battistini e Leoni che eravamo ricercati.

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