La Masseria Albaneta, luogo di pace, di preghiera e di riflessione (11 febbraio-19 maggio 1944).
Fu l’11 febbraio 1944 che gli americani tentarono l’ultimo colpo per catturare le rovine della Masseria Albaneta. Le relazioni dei due reparti che vi furono impegnati,
il I ed il III battaglione del 141st Infantry Regiment, sono confuse, ma la lotta e le conseguenti perdite da ambo le parti furono gravi. Alcune fonti affermano che la
costruzione fu persino occupata dagli attaccanti, ma che dovettero ritirarsi a fronte di un contrattacco tedesco. [1]
In quei giorni sulle montagne pioveva a dirotto e nelle ore della notte la pioggia si trasformava in neve. Tra i soldati americani, immersi nel fango, furono molti i casi
di congelamento, ma nonostante le penose condizioni in cui vennero a trovarsi, l’attacco alla Masseria Albaneta fu della medesima intensità di altri furibondi assalti
lungo la Linea Gustav succedutisi dal gennaio al maggio 1944.
La Masseria Albaneta, come tutta la zona adiacente, da Montecassino al colle Sant’Angelo, fu coinvolta nella battaglia perché il comando della 5a Armata americana nel predisporre il vasto piano che avrebbe dovuto concludersi con lo sfondamento delle ali dello schieramento tedesco, previde che la città di Cassino sarebbe stata avviluppata dal Nord facendo ruotare il Corpo di Spedizione Francese verso sud ovest in direzione di Terelle e quindi di Piedimonte San Germano.[2]
La 34a divisione di fanteria americana, dislocata alla sinistra dei francesi, avrebbe superato il Rapido a nord di Cassino dividendosi in due colonne: una avrebbe puntato a sud verso Cassino, l’altra ad ovest verso le montagne per sbucare, in concomitanza con i francesi, alle spalle dei tedeschi verso Piedimonte San Germano. [3]
In un primo tempo, il 133rd Infantry Regiment, al comando del colonnello L. Marshall, doveva catturare le quote 156 e 213, nell’area delle caserme italiane, e
la strada per Cassino; il 135th Infantry Regiment, agli ordini del colonnello Mark M. Boatner, doveva passare attraverso il 133rd e puntare verso il monte
Castellone, il colle Sant’Angelo e la Masseria Albaneta. [4]
Tra il 25 ed il 30 gennaio si svolse una fase preliminare della battaglia durante la quale, al costo di enormi sacrifici e moltissime perdite, i fanti americani riuscirono
ad attraversare il Rapido, raggiungere la periferia settentrionale di Cassino da una parte ed il paese di Caira dall’altra, inerpicandosi verso la cresta di monte
Castellone, il colle Maiola ed il Calvario.
La pur lenta avanzata delle unità di fanteria verso le montagne a nord dell’Abbazia di Montecassino, convinse il comando della 5a Armata ad insistere verso obbiettivi
strategicamente importanti la cui conquista avrebbe aperto la strada verso la valle del Liri, tanto che il 2 febbraio vennero impartiti ulteriori ordini facendo
intervenire nel settore l’intera 36a divisione di fanteria. [5]
Tra il 3 e l’8 febbraio si verificarono violenti combattimenti nelle vicinanze del Monastero, fino a lambirne le mura, ed a colle S. Angelo. Il 6 il III battaglione del
135th Infantry Regiment riuscì a conquistare la vetta della quota 593, ma venne respinto durante il giorno successivo. [6]
Tra il 7 ed il 10 febbraio, il generale Walker, comandante della 36a divisione, poté concentrare le proprie forze per un’ulteriore azione; il 143rd Infantry Regiment
rilevò il 142nd nell’area di Terelle e così ebbe il 141st ed il 142nd a sua disposizione per un attacco sulla destra della 34a divisione.
L’11 febbraio il 142nd avanzò verso l’Albaneta ed alla sua sinistra il 141st assaltò la quota 593. Entrambi gli attacchi furono appoggiati da un possente fuoco di
artiglieria.
Il 142nd raggiunse le mura della Masseria Albaneta e vi si mantenne per qualche tempo. Là il colonnello Schulz, comandante tedesco del settore, radunò le ultime riserve
locali, un plotone di genieri, e la situazione restò incerta fino all’arrivo di rinforzi. La posizione di Albaneta fu comunque salvata dal fuoco proveniente dalla
quota 575.
Verso le 17, la forza dei due battaglioni americani si era ridotta a 20 ufficiali e 150 uomini, a fronte dei 70 ufficiali e 1600 uomini della forza normale, ed i due
reparti furono uniti agli ordini del capitano Newman. [7]
Alla sera furono effettuati gli ultimi tentativi, ma i fanti americani erano ormai al limite della sopportazione umana. Nel corso dei combattimenti di quel giorno avevano
lanciato 1.500 bombe a mano, segno di un accanimento non comune, ma tra pioggia, vento e neve non ce la facevano più, come i loro compagni del 168th impegnati
nell’ennesimo attacco a Montecassino. [8]
Le due divisioni americane furono ritirate dal fronte e sostituite dal Corpo Neozelandese. In particolare la zona fra Montecassino e l’Albaneta venne assegnata alla
4a divisione indiana; sul monte Castellone si alternarono invece reparti del Corpo di Spedizione Francese.
La quota 593 e il vallone tra la Cresta del Serpente e l’Abbazia furono testimoni di una rinnovata serie di assalti che videro il sacrificio di decine di combattenti
inglesi, indiani e nepalesi, mentre la zona dell’Albaneta non fu direttamente interessata.
I tedeschi ne approfittarono per aumentare le proprie difese con vasti campi minati, nuovi ostacoli di filo spinato, irti di mine e trappole, e naturalmente postazioni
per armi portatili perfettamente mimetizzate fra le rocce.
La Masseria Albaneta, grazie allo spessore delle proprie mura e malgrado lo stato di rovina in cui si trovava, fu naturalmente scelta dai tedeschi come posto di
comando, ma anche come infermeria, posto di arrivo delle colonne di muli e di stoccaggio di munizioni e viveri.
Al calare delle tenebre e fino alle prime luci dell’alba la zona dove di giorno non si muoveva anima viva, riviveva: arrivavano i muli con i loro conducenti dai sentieri
provenienti da Villa Santa Lucia, si scaricavano le casse contenenti munizioni, mine, viveri, medicinali, i contenitori dell’acqua e le matasse di filo spinato.
In parte il materiale veniva stoccato nei sotterranei, in parte, ma solo con la copertura del buio, veniva trasferito a dorso d’uomo ai vari reparti fino al colle
Sant’Angelo, alla quota 575, al Calvario.
Le colonne di muli ripartivano calcolando i tempi di percorrenza a seconda dello spuntar del chiaro, portando indietro feriti e malati o i corpi dei caduti, seguendo
percorsi che di quando in quando erano bersaglio dell’artiglieria alleata.
La masseria continuava ad incassare granate su granate, bersaglio troppo visibile per non essere preso di mira nel sospetto che i tedeschi vi trovassero un riparo.
Il campo di battaglia assumeva pian piano l’aspetto che sarà eternato dalle centinaia di fotografie delle quali oggi disponiamo, continuamente sconvolto dal tiro delle opposte artiglierie e dagli attacchi dei caccia-bombardieri alleati. Nella vasta area di “terra di nessuno” che divideva i contendenti, giacevano decine di cadaveri insepolti.
Si giunse al pomeriggio del 19 marzo 1944, quando all’orecchio dei tedeschi di guardia tra le mura giunse un rumore che non si sarebbero mai aspettati: un rombo di
motori ed uno sferragliare di cingoli.
Possibile?
Quando squillarono i telefoni dei comandi nelle retrovie e fu detto che c’erano dei carri armati, li presero per matti.
Nella sorpresa più totale davanti all’Albaneta invece spuntarono proprio i carri armati: neozelandesi, indiani e americani.
Erano le 9 del mattino. La colonna si divise in due. Gli Sherman neozelandesi puntarono sull’Albaneta, gli Honeys, più piccoli e più agili, puntarono sulla destra verso
la quota 575.
I tedeschi reagirono velocemente. Mentre una pioggia di pallottole di armi leggere proveniente dalle postazioni avanzate si abbatteva sui carri, impedendo l’apertura dei
portelli superiori per vedere, entrarono in azione cannoni, mortai e lanciarazzi. Quattro carri erano rimasti immobilizzati alla Gola, uno fu colpito davanti
all’Albaneta e quattro Honeys furono arrestati. [9]
Verso mezzogiorno arrivò l’ordine di avanzare verso il monastero e tre carri presero a percorrere la mulattiera che passava sotto le quote 593 e 569. Il primo saltò su
una mina, bloccando la strada; il secondo cercò di manovrare per tornare indietro, ma rimase immobilizzato; il terzo riuscì a mettersi al sicuro.
A quel punto l’attacco poteva considerarsi fallito e arrivò l’ordine di ritirarsi. Ben 22 carri rimasero sul terreno, in parte colpiti da razzi o granate e in parte
immobilizzati per la rottura dei cingoli; nella notte successiva i tedeschi provvidero a farli saltare.
Le perdite erano state contenute. Gli equipaggi erano riusciti a fuggire o erano stati presi prigionieri.
I Neozelandesi ebbero a lamentare due ufficiali e tre uomini caduti, e un ufficiale e otto uomini feriti. [10]
Alle rovine della Masseria, ai resti degli alberi bruciati, al terreno sconvolto dalle esplosioni si aggiunsero le carcasse dei carri in un paesaggio sempre più simile
alla superfice lunare.
Dopo l’attacco del 19 marzo e fino a maggio non si verificarono più combattimenti ravvicinati, ma tutta la zona rimase sotto il fuoco delle opposte artiglierie.
Ancora caduti e feriti, come testimoniano le date di morte dei genieri tedeschi all’opera nel completamento dei campi minati o degli infelici soldati inglesi, indiani,
nepalesi, polacchi, italiani, algerini, marocchini, tunisini colpiti, magari nel sonno, da qualche granata tedesca.
Alla fine di aprile di quel 1944 apparvero i Polacchi. La loro salita in linea passò inosservata ai tedeschi che credevano di aver davanti a loro una divisione
britannica.
Anche i Polacchi provarono tutta la scomodità, ed il pericolo, di quelle postazioni ereditate da inglesi e indiani che offrivano poca protezione. Le giornate passarono
in un pesante lavoro di pala e picco per migliorare i ripari, ed un faticosissimo lavoro di trasporto dei rifornimenti, acqua compresa. Unica consolazione fu che il
tempo migliorava, la primavera avanzava ed il caldo cominciava a farsi sentire; per contro in certe ore il caldo rendeva l’aria irrespirabile per l’alto numero di
cadaveri umani e di muli insepolti presenti ovunque, mentre topi e mosche “allietavano” notti e giorni.
Si avvicinò inesorabile la data dell’11 maggio 1944, fissata per l’inizio della grande offensiva alleata che finì per travolgere la Linea Gustav.
Alle 23,00 iniziò il bombardamento delle linee nemiche.
All’una del mattino iniziò l’assalto alle posizioni tedesche.
I fucilieri polacchi riuscirono a prendere la cima della quota 593, ma i carri che avrebbero dovuto appoggiare la fanteria verso la Masseria Albaneta trovarono un
insormontabile ostacolo nelle mine, mentre sulla destra l’attacco si spegneva lentamente nel vano tentativo di catturare il colle Sant’Angelo e la quota 575.
I tedeschi avevano lavorato bene per un mese e mezzo. I campi che separano la Masseria Albaneta da quella che gli Alleati chiamavano la gola, dove si trova il monumento
con il carro del tenente Bialecki, erano stati disseminati di mine anticarro e antiuomo; vasti sbarramenti di filo spinato, imbottiti di mine e trappole, erano stati
piazzati a difesa delle posizioni avanzate; la dislocazione delle batterie d’artiglieria e lanciarazzi era stata ulteriormente migliorata.
I Polacchi vennero a trovarsi sotto un diluvio di fuoco senza protezioni e dovettero ritirarsi con perdite terribili.
Tra il 12 ed il 13 maggio ebbero 375 caduti e più di 1.000 feriti.
Obbiettivo del 2° Corpo polacco era quello di far cadere le difese tedesche a nord di Montecassino (dalla quota 593 alla quota 575) per scendere nella valle del Liri
alle spalle di Cassino che sarebbe caduta per aggiramento. [11]
L’attacco fu ripetuto nella giornata del 17 maggio ed a costo di pesanti perdite i Polacchi riuscirono ad intaccare la linea tedesca verso colle Sant’Angelo.
Quel giorno il Corpo di Spedizione Francese catturava Esperia spingendosi verso Pontecorvo e la strada Itri-Pico, il II Corpo americano avanzava verso Itri; nella valle
del Liri Inglesi e Indiani erano ormai all’altezza di Aquino, i Canadesi quasi a Pontecorvo: la resistenza tedesca aveva ceduto.
Il 18 maggio 1944 la bandiera bianca e rossa sventolò finalmente sulle rovine dell’Abbazia di Montecassino, ma tra il 17 ed il 18 maggio davanti alla Linea Gustav erano
ancora caduti ben 305 ufficiali e soldati polacchi.
Alla fine dei combattimenti, fra le pendici di Montecassino, il Monastero, la cosiddetta valle della morte, le quote 569 e 593, la Masseria Albaneta, la quota 575,
il colle Sant’Angelo e la gola, il campo di battaglia si presentava come se un possente e fantastico terremoto avesse sconvolto non solo costruzioni e manufatti, ma
financo la vegetazione e le pietre.
Il terreno era pieno di armi abbandonate, granate ed ordigni inesplosi, attrezzi ed equipaggiamenti sparsi ovunque, ma era anche cosparso di cadaveri insepolti; iniziò
una pietosa opera di recupero delle salme che, almeno per i tedeschi, si protrasse nel corso degli anni.
Per i Polacchi quel terreno divenne sacro.
Il generale Anders, conscio del destino che stava preparandosi per il suo Paese che cadde sotto una dittatura comunista succube dell’Unione Sovietica, volle a tutti i
costi che il sacrificio dei suoi soldati non fosse dimenticato, lasciando tracce precise proprio nei posti dove più sanguinosa era stata la battaglia.
Tutti avrebbero potuto e dovuto ricordare degnamente la resurrezione della Polonia contro l’occupazione nazista e, più tardi, contro l’invasione sovietica.
Volle i due monumenti sulla quota 593, il Calvario, e sulla quota, 575, Sant’Angelo; volle che fosse
ricordato l’attacco micidiale del 12 maggio attraverso le spoglie del carro armato in cui trovarono la morte il comandante, il tenente Bialecki, insieme al suo equipaggio.
Volle fermamente che i corpi dei caduti fossero raccolti nel bellissimo cimitero che sorse in quella conca che i soldati americani avevano chiamato la “Death Valley”,
proprio davanti all’Abbazia di Montecassino, forse pensando che sarebbe risorta anche a protezione di quel sacro recinto.
Di tutto ciò si prese cura il governo polacco in esilio a Londra e poi le comunità dei reduci, alle quali era stato inibito il ritorno in Patria, sparse in tutto il
mondo; nella Polonia comunista, nonostante i divieti e le minacce, Montecassino ed il 2° Corpo rimanevano simboli di libertà e di indipendenza, come lo fu la rivolta di
Varsavia.
La Masseria Albaneta rimase nello stato in cui era stata ridotta dagli ininterrotti bombardamenti durati più di quattro mesi. Divenne un simbolo naturale a ricordo dei tanti caduti all’interno di essa e tutto attorno: tedeschi, austriaci, russi, americani, inglesi, indiani, nepalesi, neozelandesi, italiani e naturalmente polacchi. [12]
Note
Bibliografia
Sitografia
Immagini
Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.
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