IL MIO OTTO DICEMBRE
IL MIO OTTO DICEMBRE è cominciato il sette.
II Cap. Visco mi dice di passare il Peccia e di occupare con la mia squadra il boschetto, la piccola altura al termine della quale avrei dovuto
disporre (se ricordo la terminologia) dei posti di sorveglianza e segnalazione.
Vedo che ci sono delle buche in cui un uomo sta giusto in piedi sporgendo solo con gli occhi; quel che ci vuole. Dico di stare attenti, io sarei
passato ogni ora per avere notizie.
Poi trovo una buca per conto mio e mi siedo sui ciottoli del fondo col sedere a bagnomaria. Mi dispongo in testa quel pezzo del telo da tenda che il
Regio Esercito aveva splendidamente elargito a ciascuno.
Nel corso del primo minuto mi addormento come un tasso, sogno tutto il sognabile e forse qualche cos'altro, mi sveglio di soprassalto sentendomi in
ritardo sui miei appuntamenti e salto fuori dalla buca. Ho riposato sin troppo e vado a vedere cosa c'è di nuovo.
C'è di nuovo che si sentono voci sommesse a pochi passi. Mazzeo mi dice che sono tedeschi. Ascolto. Boia! Sono proprio crucchi.
Vai indietro e avverti! Lui torna e dice che sarebbero allucinazioni. La paura fa questo ed altro. Verifichiamo per bacco! No, no, questi sono
tedeschi, altro che allucinazioni. Torna giù a dirlo! Ma non serve. E allora non resta che aspettare mattina.
Notte lunga. La notte della mia vita, in cui mi debbo convincere che sono già morto, in potenza, e che la morte fisica, più o meno scontata, è un fatto
di tempo, una modalità casuale che non sollecita più neanche un senso di curiosità. Come deve succedere, succederà: dato che ormai son morto è naturale
che dorma.
Ma qualcuno mi dice: dai che la Compagnia sta arrivando e corro nella nebbia a raccogliere la mia squadra, è ancora buio,
mentre il primo plotone mi sorpassa a sinistra. Sbrigati per dio. I primi colpi: la battaglia è iniziata e io sono qui che piscio. Mi mancano ancora i
fucilieri e il tenente Ruini sta già tornando indietro con un fazzoletto stretto alla coscia con un filo di sangue. Avanti, porca vacca.
Nel fossato anticarro che ci sbarra la strada, tra la fine del boschetto e l'inizio del campo, c'è rintanata mezza Compagnia. Io grido
Sesta squadra avanti e scavalco il fossato, assieme a Galletti che guida la VI squadra, mentre il primo plotone scatta
sulla mia sinistra a ridosso del terrapieno della ferrovia.
Faccio uno sbalzo, come mi hanno insegnato. Mi fermo quando vedo davanti a me il lampeggio delle mitragliatrici tedesche che fora la nebbia. Ma sono in
mezzo al campo senza schermi o ridossi. Solo la nebbia mi protegge. Male caporalmaggiore. Sesta squadra! E compare Mattei Gentili,
il mio amico Toio, capo arma, con un’espressione intenta come a un esame, ma senza ombra di paura. Là e gli indico
degli sterpi sulla mia destra al limite del campo. Toio fa lo sbalzo laterale. Non si fanno fare sbalzi laterali, caporalmaggiore. Mettiti in tela e
vai in camera di punizione. Mattoccia porta arma lo segue e dietro di lui, di corsa in gruppo, i portamunizioni. Sento la voce del tenente Scamuzzi
che incita i suoi ma la frase si interrompe come una esplosione. Sulla sinistra il primo plotone disteso a terra lungo il terrapieno della ferrovia è
percorso da un fremito. Grida, imprecazioni e corpi che rotolano giù. No, non può essere, è Canali, è Cosimini, è Biancofiore, sono i miei amici, non
possono morire, non possono morire per sempre, scomparire e lasciarmi orfano di questa parte della umanità che mi appartiene.
Spara Mattoccia, spara! Ma lo stesso fremito di morte passa sulla mia squadra che rotola nel fossato al di là degli sterpi.
Non c'è più sbalzo laterale, non c'è più niente che conti. Li ho portati a morire, li ho portati nel posto che non avrei mai dovuto indicare. Mattoccia
è ferito alla coscia, Morelli, Maccheroni sono a terra sanguinanti. I pacchetti di medicazione; li usiamo tutti, Mattei ed io, ma ci vuol altro.
Mattoccia ha già gli occhi vitrei e sul suo viso infangato le gocce di pioggia formano delle piccole macchie chiare. Gemiti, invocazioni di soccorso,
qualche testardo che non vuole ancora morire. Ma siamo morti tutti, ormai, non l'hai capito? È morta la 2ª Compagnia. E questa nebbia tragica,
interrotta dalle fiammelle delle mitragliatrici tedesche che seguitano - maledette - a sparare. Chi vuoi uccidere, ormai, neanche tu hai capito che
siamo tutti morti? Ma una bomba a mano col manico rotola vicina a Toio che senza scomporsi fa in tempo a raccattarla e rispedirla: esplode in aria.
Raccogliamo tutte le bombe a mano, le nostre Odino Terni Orlando (se ben ricordo) dal grande effetto morale.
Poi Toio alza l'elmetto sulla baionetta al di sopra del fossato e io butto una dopo l'altra tutte le bombe a mano nella direzione delle fiammelle che
forano la nebbia. Chissà, forse li abbiamo presi o forse se ne sono andati - è più probabile – per via del grande effetto morale. Per lo meno non
sparano più.
Ormai ci siamo solo noi nel fossato. Gli altri si sono convinti di essere morti. Tranne qualcuno nel campo che seguita a chiamare e a chiedere aiuto.
Ma non è raggiungibile. Non si può salvare, non c'è modo. E noi siamo chiusi in questa trappola.
Troviamo di fianco al fossato una specie di pozzo rotondo, semicoperto da un albero spezzato, che ci consente di issarci a guardare intorno. Nel campo
e sul terrapieno solo corpi riversi, armi e materiale sparso. Arrivano chissà da dove altri due dei nostri. Stravolti. Una mitragliatrice tedesca
riapre il fuoco. È un pò più lontana di prima. Precipita nel nostro rifugio il sergente maggiore Torre. È a lui che sparavano.
Ho
capito che eravate qui e sono venuto a dirvi che l'unica è aspettare la notte. Di qui non si esce. E tu, sergente Maggiore Torre, che al corso ci
hai rotto più di ogni altro, sei venuto da dietro, dove eri, al sicuro, in mezzo alle raffiche per dirci di non muoverci? Caro, generoso Torre!
Ma i mortai, o, che ne so, l'artiglieria comincia a pestare forte. Gli scoppi sono sempre più frequenti e vicini. Ci ritroviamo coperti di terra,
mentre dal rantolo che ci circonda si alza qualche flebile invocazione. È la nostra artiglieria che spara per impedire un contrattacco? Bisogna dire
che allunghi il tiro se vuole sparare sui tedeschi e non sui morti e sui moribondi. Ci vuole uno che esca. Ma ormai la nebbia si è diradata e ci si
vede. Toio mi guarda e dice
vai tu? Datemi una spinta che salto fuori più in fretta che posso e poi, se riesco, corro a
tutta birra sul campo, supero il reticolato nel punto in cui è abbattuto e mi butto nello sbarramento anticarro. Di là c'è il boschetto e uno è a
ridosso.
Se non ce la faccio, dico a Toio,
parti tu. E mi catapultano fuori. Ho fatto due passi
e una raffica mi sibila attorno. Mi butto a terra rivolto verso l'arma nemica e un colpo solo ben mirato mi colpisce al gomito sinistro. Un senso di
intorpidimento del braccio più che dolore.
Urlo a Toio
mi hanno preso. Non muoverti. Non si passa. Ma lui è già saltato fuori e corre a zig e zag come una lepre
impazzita mentre la mitragliatrice tedesca lo insegue. Ha superato il reticolato! Ancora pochi metri ed è salvo. Me lo vedo cadere e urlo
Torre non ce l'ha fatta
neanche lui. State fermi e aspettate la notte. Se arrivano vi avverto.
Mi metto supino col braccio ferito sulla pancia. Ma a ogni mossa che faccio tornano a sparare. Ma sono lontani e non mi beccano più, o quasi. Striscio
lentissimo indietro e in un paio d'ore raggiungo il reticolato. Ma il senso di benessere che dapprima mi ha dato il dissanguamento si traduce in un
senso di freddo insopportabile. Ecco perché i romani si svenavano nel bagno caldo! E la ferita mi fa troppo male. Non ce la faccio più. Svengo,
rinvengo. Facciamola finita con questa agonia. Mi alzo in piedi faticosamente. Ma non mi sparano. Non mi sparano, non mi sparano e comincio a concepire
l'incredibile. Sta a vedere che riesco a squagliarmi. Debole e dolorante faccio qualche passo. Scavalco il reticolato e vedo il fossato anticarro.
Mattei non c'è. Allora ce l'ha fatta! Ormai ce la faccio anch'io! Ma ecco la raffica alle spalle. Carogne! Proprio ora che avevo osato sperare. Svengo
e rotolo nel fossato.
Quando rinvengo sono piuttosto malconcio e il braccio fratturato è voltato a rovescio. Lo metto al collo sotto la bretella della maschera antigas e mi
avvio, scavalcando il corpo quasi putrefatto di un soldato americano di colore, verso il boschetto. Toh! C'è Tonino di Giorgio che assiste Castellaro
ferito alla spalla. Castellaro si infila in una buca, sfila le sigarette di tasca e dice che non si muove prima di avere finito il pacchetto. Di
Giorgio mi prende per il bavero e mi porta indietro verso le nostre linee. Attraversiamo il Peccia e vediamo a mollo il fucilone Solothurn della
squadra di Marzollo. Deve essere andata male anche a lui. Infatti è un punto scoperto e da un varco del terrapieno della ferrovia siamo raggiunti da
una raffica. Di Giorgio mi butta a terra e si butta sopra di me per ripararmi.
Poi mi rialza e mi trascina il più rapidamente possibile dietro un riparo. Ci sono i resti della compagnia: sei o sette uomini laceri, sporchi,
allucinati, irriconoscibili. Procediamo in un camminamento e incontriamo la terza Compagnia, col Capitano Castelli in testa venti metri davanti agli
altri. Gli dico che sto andando a Bologna. Che spirito! Meletti mi dà una Chesterfield perché le mie sono inzuppate di sangue. Tutti mi incoraggiano e
io raccomando di essere prudenti e di non farsi fregare come noi della seconda.
Finalmente due portaferiti mi caricano sulla barella che dopo tre passi si sfonda e vado per terra. Ne avrei fatto a meno, oggi non sono in vena di
scherzi. Arriviamo a piedi alla strada statale, tutta una buca. Una jeep americana arriva a tutta velocità facendo lo slalom tra le buche. Ci carica e
ci porta al posto di medicazione americano dove un tale mi sente il polso mi mette una stoletta e mi dà tanto di benedizione. Poi mi tagliano i
vestiti, mi medicano con rapidità ed efficienza, immobilizzano il braccio con una ferula, mi praticano iniezioni coagulanti, mi dicono che ho perso due
litri di sangue, mi fanno una trasfusione di proporzioni gigantesche, mi riempiono la barella di sigarette e cioccolata e mi portano all'ospedale da
campo italiano.
E qui ricomincia la naia.
Ma questo è un altro capitolo e lo racconterò un’altra volta.
Comunque voglio aggiungere solo che sono diventato donatore di sangue per pagare il mio debito a un tizio che non conosco ma che, assieme a Torre e Di
Giorgio, mi ha permesso di ricordare a quarant'anni di tempo, tutto questo.
8 DICEMBRE 1943 – pomeriggio
Ospedale da campo. Un tendone insanguinato. No, un girone dell’inferno. Camici imbrattati, barelle, divise stracciate che mostrano ferite aperte, tutti
corrono, si urtano, gridano ordini e richiami in una confusione indicibile.
La mia barella è stata posata per terra in un punto di passaggio. Mi scavalcano e vanno oltre. C’è ben altro da fare che occuparsi di quello lì già
medicato, fasciato, rifocillato che ha l’atteggiamento di chi accampa delle pretese!
Ma il tempo passa e non succede niente. Sta per imbrunire e chiedo
a me dove mi mettete? Tu vai all’Ospedale Territoriale, appena
l’autoambulanza è piena. C’è un ordine, mi si dice, secondo il quale l’autoambulanza deve muoversi solo a pieno carico. Speriamo che i Tedeschi
ci procurino in fretta gli altri tre feriti. E così è. Si parte su una carretta traballante su strade sconnesse.
A Maddaloni arriviamo in tre. Il quarto è morto. Morto di naia. Ma gli ordini sono ordini, anche se concepiti sei mesi o sei anni prima, quando non
c’era benzina.
All’astanteria primo interrogatorio: nome, cognome, grado, reparto, circostanze del ferimento. Verbale con timbro tondo e firma. Mi mettono su un
letto.
Saranno le 10 di sera. Chiedo di mangiare qualcosa: non ho toccato cibo da ieri sera e oggi è stata una giornata un po’ movimentata. Non è possibile,
non sono “in forza” che da domani e la spesa viveri viene fatta in base alle presenze alla mezzanotte. Ma allora è naia anche qui, il corso continua.
Domani si farà certamente esercitazione! Una sorella della Croce Rossa ascolta la mia contestazione e mi dà un panino dei suoi, risparmiato a cena.
Già, oggi mi sono emancipato dalla soggezione che mi aveva reso così disciplinato durante il corso; mi sento libero di esprimermi alla pari con tutti.
E’ mattina finalmente e mi portano al 1° Chirurgia, il reparto privilegiato del colonnello Musto. Nuovo interrogatorio e relativo verbale. Poi mi
assegnano un letto, mi spogliano, portano gli abiti laceri e inamidati di sangue in “fagotteria”, mi mettono un camicione con la manica sinistra
tagliata per la lunga e tenuta da laccetti sfilacciati e mi portano in medicazione. Una fila di barelle per terra, in attesa del turno. Qualcuno urla
nell’ambulatorio e tra i barellati si diffonde una certa fifa. Infatti la mia medicazione è tremenda, mi pare che mi strappino la carne, più che le
bende.
Ora è finita e sono di nuovo in camerata. Siamo una trentina disposti sulle due pareti lunghe. Faccio amicizia coi vicini. Cernuschi, allievo ufficiale
dei granatieri, bianco e timido, ha perso un piede su una mina e racconta l’episodio quasi come se si scusasse per essersi sbagliato e per dare tanto
disturbo.
Coira, contadino dell’alto Cuneense, ha una gamba in cancrena e alterna urli di dolore a canzoni dialettali: tutto a pieno volume con un’alternanza
imprevedibile. Castelli, sergente maggiore, ha la mia stessa ferita: frattura esposta comminuta del gomito.
Viene a visitarci Umberto, Luogotenente Generale del Re e si ferma al mio letto. Si ricorda di me per avere scambiato due parole il 25 Settembre quando
ci passò in rivista a Bari. Dice che mi verrà ancora a trovare.
Al 2° Chirurgia viene ricoverato il mio amico Toio Mattei Gentili. E’ ferito da una scheggia al gomito. Cosa da poco.
Castelli tende a guarire e io invece giorno per giorno sto sempre peggio. Ho la febbre alta e le medicazioni ogni mattina mi fanno impazzire. Il Col.
Musto mi dice:
C’è un ossicino che debbo togliere. Ti farò un po’ male. Poi spinge la pinza nella carne, aggancia
l’ossicino, lo fa passare attraverso i tessuti e “bang” nella bacinella. L’avrà fatto venti volte e io sono svenuto quasi sempre. La naia continua.
Ormai non c’è più giorno e notte, il mio tempo è scandito dal succedersi delle medicazioni. Quando mi riportano in camerata, farnetico per ore prima di
ritornare in me. Vorrei morire, non ce la faccio più. E l’osteomielite che mi morde come una iena.
Umberto di Savoia viene spesso a trovarmi. Si siede sul mio letto e mi dice di tenere duro. E’ un grosso conforto per me.
18 Gennaio: resezione dei capi articolari.
Ti tiriamo via tutto il gomito, facciamo una bella pulizia e così guarisci.
Il cloroformio che voltastomaco!
Mi sveglio nel mio letto, ma ho male ad una coscia. Un infermiere mi solleva le coperte e toglie una borsa d’acqua bollente con la carne attaccata. E
va bé, è stato un errore, ma dopo il cloroformio c’è pericolo di polmonite e bisogna star caldi.
La naia continua.
Un paio di giorni e poi di nuovo la medicazione. Il Colonnello mi dice
C’era un buco di entrata di un proiettile anche vicino al
polso, non te ne eri accorto?
Passano i giorni e la febbre aumenta invece di diminuire, l’osteomielite ha ripreso a divorarmi. Bisogna amputare.
L’8/2/44 mi amputano e il mio braccio mi precede sotto terra. Non ci si rassegna facilmente a vent’anni.
Poi gradualmente il peggio. L’osteomielite ha ripreso la via ascellare. Sono stremato e così magro che abbraccio la coscia con la mano. La sera
ritirano i miei vestiti in fagotteria, prima che chiuda, e me li mettono nel cassetto a piè del letto. Per vestirmi subito se muoio durante la notte.
E’ una manovra che ormai conosciamo bene, perché sono già morti tanti in camerata!
Viene anche il becchino. Vecchi, di Bologna, e considera ad alta voce che ho una corporatura tale che qualunque cassa va bene.
Poi il prete, ma gli dico che non si disturbi, grazie.
Ho tre coliche renali e il Col. Musto dice di farmi un’analisi delle urine. Nefrite.
Allora – spiega il Colonnello al
codazzo dei suoi assistenti-
se mangia muore per la nefrite, se non mangia muore per l’osteomielite. Non è più il caso di curarlo.
E io sono lì che assisto. Ma che importa? E’ un militare e la psiche non ha stellette! Almeno non mi torturano più con le medicazioni e crepo in pace.
Ma – guarda caso - si verifica tutto il contrario: non irritata dalle continue medicazioni l’osteomielite si placa e una mattina mi sveglio col moncone
quasi sgonfio non più infiammato né dolente. La febbre cala e un giorno mi alzano per una passeggiata sino in fondo al letto. Smettono di portare i
miei vestiti avanti e indietro dalla fagotteria.
E’ primavera e, sorretto da due infermieri, vado fuori all’aperto. L’erba è ricresciuta, tutta la natura è rinata e io, restituito alla vita, non posso
trattenere le lagrime. Mi sento fuso nella coscienza del creato.
Caporalmaggiore Federico Marzocchi
LI Battaglione Bersaglieri A.U.C. "Montelungo", seconda compagnia.
Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.
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Enrico Farinosi, classe 1922, interrompe gli studi universitari per partire volontario all’inizio del 1943. Arruolato nei Bersaglieri presso il LI Battaglione A.U.C. di stanza a Marostica, nella II Compagnia, II plotone, V squadra, segue le vicende della sua unità fino all’attacco del giorno 8 Dicembre 1943 a Montelungo, in cui viene seriamente ferito. La sua squadra quel giorno ha 4 morti e 5 feriti su 10 effettivi. La sua guerra finisce lì. Negli anni a seguire manterrà sempre fortissimo il legame con Montelungo, i suoi Amici Caduti e quelli sopravvissuti, partecipando con passione a tutti gli incontri e raduni, salute permettendo. E’ scomparso il 25 Aprile 2004. Pochi giorni dopo, in un ideale continuità di sangue e valori, le sue piccole nipoti hanno seppellito una ciocca dei suoi capelli in quella spianata fra la ferrovia e le pendici del monte che videro dissolversi la sua II Compagnia.
13/01/2005 | richieste: 5714 | VARI
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