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CASSINO, L'ULTIMA SPANDAU!
Data: 24-10-2004Autore: GIANCARLO LADICategorie: SpigolatureTag: #post war, armi-equipaggiamenti, germania, ritrovamenti

CASSINO, L'ULTIMA SPANDAU!

A Cassino, in quei tempi, il caffè nella piazza centrale era il ritrovo abituale di chi per un motivo o per un altro si trovava a ciondolare intorno all’autostrada in costruzione (non ricordo se si chiamasse bar Centrale o bar Roma). La direzione di tronco guidata dall’ing. Roberti-Malagutti non era lontana e per un caffè, un aperitivo o una colazione canonica con cornetto e cappuccino i tecnici addetti ai lavori, erano sempre lì. La sera d’estate, poi, visto che eravamo tutti scapoli di fatto o perché mogli e famiglie erano lontane, o perché mogli e famiglie non avevamo, solevamo riunirci intorno ad un tavolino, oltre che per ristorarci dalla trascorsa calda giornata, per uno scopone, un tressette o per quattro chiacchiere che aiutavano a trascorrere il tempo nell’attesa dell’ora di andare a letto. Mi tornano alla memoria alcuni nomi dei frequentatori abituali del tavolo serale del bar: l’ingegner Laschena della direzione di tronco, l’ingegner Paolucci della Farsura, l’ingegner Bernieri del laboratorio terre, i geometri Sacchi, Casadidio, Rigato, Marziani ed altri, a vario titolo responsabili di reparto o di differenti incarichi (perché fare dei nomi? Perché quando si scrive la storia sono essenziali i riferimenti.).

Questo bar gestito da una giovane coppia, belloccia lei sempre alla cassa, servizievole e taciturno lui, era divenuto quindi il nostro punto di ritrovo in una Cassino che non offriva a dei forestieri proprio nulla. Gravitavano intorno al nostro gruppo di stranieri poi anche dei locali che avevano con noi dimestichezza per ragioni di lavoro, perché fornitori di materiali o semplicemente perché conoscenti. Diverse di queste persone venivano anche dal circondario o dai paesi vicini. Uscivano dopo cena a prendere il fresco e ce li trovavamo intorno al nostro tavolo con tutte le novità della valle. Tra questi un giovane casellante amante delle scarpinate in montagna lungo i costoni del massiccio del monte Cairo o delle Mainarde e che condivideva con me alcuni interessi sulla passata guerra. A volte mi aveva fatto da tramite con qualche colono per trovare un cimelio od un ricordo di battaglia. I coloni erano fonte inesauribile d’oggetti del passato e raggiungerli era la via maestra per arricchire la propria collezione.

Una sera dunque, questo conoscente, si avvicina al tavolo dello Scopone e mi fa cenno che desidera parlarmi. Appartatomi con lui mi chiede se sono disposto a pagare settantacinquemila lire per un’arma automatica lunga e quattro cassette di munizioni in nastri. Non sa dirmi di che arma si tratti perché neanche il suo contatto la conosce quindi prendere o lasciare poiché, tra l’altro, il contadino non intende sbottonarsi di più.  Settantacinquemila lire sono quasi i tre quarti di un mio stipendio mensile d’emigrato e la cifra mi lascia perplesso. La curiosità comunque è grande e la speranza di fare il colpo della mia vita non mi concede scelte. Gli dico d’essere d’accordo e di trattare l’affare. Passa del tempo e della cosa non ne so più nulla. Ripensamento del contadino o timori del mio conoscente? Bah!

Ai primi di Settembre è tempo di caccia. Lepri e coturnici sono in attesa, a quote diverse, su monte Cairo mentre è ancora presto per le beccacce nella stretta tra monte Maggiore e monte Lungo, la dove il Peccia s’impaluda tra cespugli e canne.

Al solito tavolo del bar dello Scopone l’amico si avvicina e propone per il sabato successivo una camminata su monte Cairo, con schioppo in spalla, alla ricerca delle coturne. Accetto spronato anche da una sua strizzata d’occhio. Alle cinque del mattino, ancora buio, passo a prenderlo in macchina a casa sua fuori Cassino. Ci avviamo su per la strada che costeggia il Rapido e superata Caira proseguiamo fin oltre Terelle. In uno spiazzo lasciamo l’auto ed incontriamo un contadino con tre cani che ci aspetta. Qualcuno doveva averlo portato fin lassù. Fatte le presentazioni, ci avviamo per un sentiero su per il monte. L’alba comincia a svelarci il profilo delle montagne che circondano la valle. Man mano che saliamo il paesaggio si fa superbo, non c’è traccia d’abitazioni, la vegetazione, bassa e cespugliosa, riveste tutta la costa ripida, solcata da canaloni. Sulla sinistra, a perdita d’occhio, i rilievi dell’Appennino si fanno evanescenti nella foschia mattutina, intorno e davanti, oltre la valle, il profilo noto di tutte le montuosità che furono il teatro di tanti scontri bellici durante l’ultima guerra cominciano a stagliarsi nettamente nella luce del mattino che aumenta. La salita prosegue silenziosa, faticosa per molto tempo. Stanchi bivacchiamo con pane, salcicce e vino, mentre i cani legati scodinzolano, guaiscono e reclamano la loro parte di cibo. Poche parole per indicare un costone trecento metri sopra di noi e si prosegue. Ai piedi del costone ferma dei cani, subitaneo frullo d’ali, quattro o cinque schioppettate, latrare alto dei cani che si lanciano nel forte della vegetazione. Le prime due coturne sono appese ai laccioli del tascapane. Prosegue la caccia fin che il sole alto e la stanchezza ci costringono in una grotta ombrosa che domina tutti i dintorni. Sul fondo della stessa resti arrugginiti e corrosi di scatolette di viveri e sigarette, sassi per bivacco e tracce d’antichi fuochi.

Il contadino domanda, nel suo idioma incomprensibile, al mio accompagnatore se sono sempre disposto a dargli le settantacinquemila lire. Alla risposta affermativa di quest’ultimo vuole da lui garanzie che sia mantenuto l’anonimato. Cerco di farmi dire di che arma si tratta ma quello non ne ha la minima idea, asserisce essere in perfetto stato di conservazione poiché lui ed il fratello l’ hanno sempre tenuta nascosta, per diciotto anni, in un luogo asciutto e protetto. Dice d’averla trovata, sempre lui ed il fratello, mentre erano intenti alla raccolta di rottami ferrosi, residuati bellici e schegge da vendere, su di una pettata in un vallone tra Colle Abate e Colle Cupone ancora in postazione, con il nastro delle munizioni inserito e le quattro cassette di lato. Era coperta da un telo mimetico e rami secchi. Il nastro, loro non erano stati capaci di toglierlo e per paura l’avevano lasciato lì arrotolandolo sull’arma.  Rifletto rapidamente e giungo alla conclusione che non può essere che una M.G. 34 od una M.G. 42. Un Bren inglese è da escludersi perché ha i caricatori e non i nastri. La Browning 1919 A4 americana è troppo grande ed ingombrante per di più con un voluminoso treppiede che bisogna separare dall’arma per poterla trasportare.

Se c’è qualcosa nella vita che io abbia disperatamente desiderato dall’età di quattordici anni è stata una Maschinen Gewehr 42. Ho cominciato a desiderarla nella primavera 1944 quando la vidi per la prima volta sparare nel poligono di tiro di Mompiano, paesino vicino a Brescia. Giungevano qua per esercitarsi al tiro dei reparti di soldati germanici. Io ero un ragazzetto sempre ospite in questo poligono comandato allora da mio zio, Ulisse Putignani, ufficiale dell’esercito repubblicano. Giungevano qua, come dicevo, e piazzavano le loro armi non sulle linee di tiro predisposte ma sui terrapieni oltre queste, in postazioni di tre o quattro pezzi ed aprivano il fuoco su bersagli situati sul rilevato erboso di fondo campo. Per me era una festa, una gioia indicibile che mi faceva sognare poi per giorni e giorni questa mitragliatrice. Era essa un’arma assolutamente nuova per le mie conoscenze in materia che pur non erano poche. Ero uso alla nostra Breda 37 che con i suoi 38 chili e quattrocentocinquanta colpi al minuto, mi faceva sembrare quest’arma che ne pesava appena 11,50 e ne sparava 1200/1500 una meraviglia incredibile. Meraviglia incredibile, in effetti, lo era e se ne resero conto gli Alleati nel 1942 quando essa fece la sua prima comparsa nella battaglia di “Kasserine Pas” in Africa settentrionale e n’ebbero conferma qui a Cassino ove, il suo apporto prevalente, sostenne nell’assedio, il peso schiacciante dei mezzi, dei materiali e delle truppe nemiche.

Mentre rifletto su quale delle due armi, M.G. 34 o M.G. 42 questa possa essere, riprendiamo il cammino tra le sterpaglie e le rocce del monte. I carnieri dei miei accompagnatori, anche se non pingui, cominciano ad essere consistenti, il mio è scarso ma ora ho altro per la testa.  Il Sole da molto ha passato lo Zenit e si avvicina alla linea dei monti che lo nasconderà alla vista. Iniziamo una discesa più faticosa della salita anche in conseguenza del passo spedito degli amici. L’aria imbrunisce quando, con le gambe a pezzi ed i piedi doloranti, arriviamo dove avevamo lasciato la macchina. Saliamo a bordo tutti, compresi i cani stanchi e zoppicanti. Lentamente percorriamo la stradina in ripida discesa, tutta curve, mentre cala la sera. Giunti a valle, seguendo le indicazioni del contadino che ci guida per strade sterrate e piene di buche, raggiungiamo un casolare con annessi rustici. In uno di questi, deposito d’attrezzi agricoli, ceste, casse, legname, di tutto insomma, sotto la luce della torcia elettrica, il nostro uomo rimuove una gran quantità di cose e tira fuori un oggetto avvolto in un telo mimetico. Poi, dopo una sequela d’imprecazioni, sempre dallo stesso ammasso informe di ferraglie e legnami estrae, una ad una quattro cassette polverose di metallo.

La luce della torcia rischiara a tratti e male l’uomo che svolge il telo mimetico dal quale esce un pezzo di storia e di vita passata. Sta lì com’era diciotto anni fa! Il nastro di munizioni ancora in sede come postovi dalle mani dei soldati germanici, l’otturatore armato, la sicura inserita! E’ una Spandau che fa tremare il sangue nelle vene!

Timoroso quasi che la visione possa sparire e la realtà trasformarsi in sogno, avvolgo l’arma nel suo telo mimetico e la carico sull’auto con le cassette. Seduto su un aratro, sotto la luce della torcia, firmo un assegno al mio amico che una volta incassato, consegnerà il denaro al contadino.

Risaliti tutti in auto e messici in movimento, dopo poco lasciamo il colono con i cani. Questi, evidentemente contento dell’affare e di essersi liberato dell’arma che nel suo immaginario d’anima primitiva doveva rappresentare una gran preoccupazione, mi regala il suo carniere di cacciagione.      Accompagnato a casa l’altro componente della brigata che mi lascia ugualmente le sue prede della giornata, rimango solo con il mio tesoro a percorrere le poco illuminate strade di Cassino. Non posso presentarmi in albergo con quel carico né posso portarmelo in ufficio. Nonostante la stanchezza proseguo per Roma. Dopo aver dormito tre o quattro ore, fucile in mano, cartucce in canna, in un viottolo nascosto al lato della Casilina, proseguo per casa. Albeggia quando scarico i miei fardelli e li sistemo nell’ascensore. Mia madre mi si fa incontro e mormora sconsolata: “Ancora!”. Le do un bacio felice e le consegno le coturnici pregandola di prepararmi la vasca da bagno.

La Maschinen Gewehr 42 è veramente in ottimo stato malgrado la polvere, il grasso secco che la blocca ed un leggerissimo strato d’ossidazione sulla scatola di culatta. Campeggia in tutta la sua bellezza sul mio tavolo di lavoro e non oso toccarla tanto sono emozionato. Comincio ad analizzarne i particolari per coglierne tutto il messaggio che la storia m’ invia. L’arma è in posizione di fuoco e dopo i suoi serventi germanici più nessuno l’ha manipolata. La cinghia di trasporto, di cuoio scuro, è montata regolarmente quindi l’arma non era in postazione fissa ma soggetta a rapidi spostamenti. Lo spezzone di nastro da cinquanta colpi non era unito ad altri ed anche questo fa pensare che l’arma fosse predisposta per agili e veloci movimenti. Quattro cassette di munizioni danno la certezza che l’M.G. 42 fosse servita dal mitragliere e due portatori. La mancanza di schegge nel calcio di legno, nelle cassette di munizioni o di segni sul metallo (come ho trovate su altre armi) e la sicura inserita, inclinano a far pensare ad un abbandono non cruento dell’arma, comunque non durante un’azione di fuoco. La cosa mi sembra strana poiché i soldati germanici non erano certo usi ad abbandonare senza combattere le proprie armi. Forse una sorpresa notturna li avrà posti in condizione di non reagire. Chissà?  Questo è un mistero che non svelerò mai.

Con religiosità, dopo i suoi serventi e diciotto anni trascorsi, mi appresto io ora a manipolare l’arma per la prima volta. Apro con leggera difficoltà il coperchio della scatola di culatta la cui chiusura è resa dura, nel suo scorrere, dal grasso secco. Nessuna difficoltà a rimuovere il nastro di munizioni che esce dalla sua sede come se ci fosse stato posto il giorno prima. Richiudo il coperchio, tolgo la sicura, rilascio l’otturatore premendo il grilletto e accompagnandolo nella sua corsa libera. Non oso fare di più per il momento.

Da quel giorno sono passati molti, molti anni. La sorte mi ha portato, per lunghi tempi, in tanti luoghi lontani nel mondo e della vita di allora rimane solo il ricordo. Nuovi interessi si sono sovrapposti a quelli che avevo ai tempi di Cassino, responsabilità grandi hanno coinvolto me e di riflesso i cari a me vicini. La tragedia si è abbattuta improvvisa sulla mia esistenza con la violenza distruttrice di un uragano uccidendo e facendo piazza pulita di tutto, affetti, persone care, beni, ricchezze, lasciandomi, non richiesta, solo la vita.

Eppure, eppure in un angolo, in un rifugio recondito, in un ripostiglio protetto, sempre ha atteso il mio ritorno e quello del sereno la Spandau della giovinezza mia e dei difensori della Gustav, essa mai mi ha abbandonato, dimenticato o tradito come solo fanno i grandi amori, le grandi passioni.

0956
0955
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Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.

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08/03/2008 | richieste: 3802 | GIANCARLO LADI
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