CASSINO, L'ULTIMA SPANDAU!
A Cassino, in
quei tempi, il caffè nella piazza centrale era il ritrovo
abituale di chi per un motivo o per un altro si trovava a ciondolare intorno
all’autostrada in costruzione (non ricordo se si chiamasse bar Centrale o bar
Roma). La direzione di tronco guidata dall’ing. Roberti-Malagutti non era
lontana e per un caffè, un aperitivo o una colazione canonica con cornetto e
cappuccino i tecnici addetti ai lavori, erano sempre lì. La sera d’estate, poi,
visto che eravamo tutti scapoli di fatto o perché mogli e famiglie erano
lontane, o perché mogli e famiglie non avevamo, solevamo riunirci intorno ad un
tavolino, oltre che per ristorarci dalla trascorsa calda giornata, per uno
scopone, un tressette o per quattro chiacchiere che aiutavano a trascorrere
Questo bar
gestito da una giovane coppia, belloccia lei sempre alla cassa, servizievole e
taciturno lui, era divenuto quindi il nostro punto di ritrovo in una Cassino
che non offriva a dei forestieri proprio nulla. Gravitavano intorno al nostro
gruppo di stranieri poi anche dei locali che avevano con noi dimestichezza per
ragioni di lavoro, perché fornitori di materiali o semplicemente perché
conoscenti. Diverse di queste persone venivano anche dal circondario o dai
paesi vicini. Uscivano dopo cena a prendere il fresco e ce li trovavamo intorno
al nostro tavolo con tutte le novità della valle. Tra questi un giovane
casellante amante delle scarpinate in montagna lungo i costoni del massiccio
del monte Cairo o delle Mainarde e che condivideva con me alcuni interessi
sulla passata guerra. A volte mi aveva fatto da tramite con qualche colono per
trovare un cimelio od un ricordo di battaglia. I coloni erano fonte
inesauribile d’oggetti del passato e raggiungerli era la via maestra per
arricchire la propria collezione.
Una sera dunque,
questo conoscente, si avvicina al tavolo dello Scopone e mi fa cenno che
desidera parlarmi. Appartatomi con lui mi chiede se sono disposto a pagare
settantacinquemila lire per un’arma automatica lunga e quattro cassette di
munizioni in nastri. Non sa dirmi di che arma si tratti perché neanche il suo
contatto la conosce quindi prendere o lasciare poiché, tra l’altro, il
contadino non intende sbottonarsi di più.
Settantacinquemila lire sono quasi i tre quarti di un mio stipendio
mensile d’emigrato e la cifra mi lascia perplesso. La curiosità comunque è
grande e la speranza di fare il colpo della mia vita non mi concede scelte. Gli
dico d’essere d’accordo e di trattare l’affare. Passa del tempo e della cosa
non ne so più nulla. Ripensamento del contadino o timori del mio conoscente?
Bah!
Ai primi di
Settembre è tempo di caccia. Lepri e coturnici sono in attesa, a quote diverse,
su monte Cairo mentre è ancora presto per le beccacce nella stretta tra monte
Maggiore e monte Lungo, la dove il Peccia s’impaluda tra cespugli e canne.
Al solito tavolo
del bar dello Scopone l’amico si avvicina e propone per il sabato successivo
una camminata su monte Cairo, con schioppo in spalla, alla ricerca delle
coturne. Accetto spronato anche da una sua strizzata d’occhio. Alle cinque del
mattino, ancora buio, passo a prenderlo in macchina a casa sua fuori Cassino.
Ci avviamo su per la strada che costeggia il Rapido e superata Caira
proseguiamo fin oltre Terelle. In uno spiazzo lasciamo l’auto ed incontriamo un
contadino con tre cani che ci aspetta. Qualcuno doveva averlo portato fin
lassù. Fatte le presentazioni, ci avviamo per un sentiero su per il monte.
L’alba comincia a svelarci il profilo delle montagne che circondano
Il contadino
domanda, nel suo idioma incomprensibile, al mio accompagnatore se sono sempre
disposto a dargli le settantacinquemila lire. Alla risposta affermativa di
quest’ultimo vuole da lui garanzie che sia mantenuto l’anonimato. Cerco di
farmi dire di che arma si tratta ma quello non ne ha la minima idea, asserisce
essere in perfetto stato di conservazione poiché lui ed il fratello l’ hanno
sempre tenuta nascosta, per diciotto anni, in un luogo asciutto e protetto.
Dice d’averla trovata, sempre lui ed il fratello, mentre erano intenti alla
raccolta di rottami ferrosi, residuati bellici e schegge da vendere, su di una
pettata in un vallone tra Colle Abate e Colle Cupone ancora in postazione, con
il nastro delle munizioni inserito e le quattro cassette di lato. Era coperta
da un telo mimetico e rami secchi. Il nastro, loro non erano stati capaci di
toglierlo e per paura l’avevano lasciato lì arrotolandolo sull’arma. Rifletto rapidamente e giungo alla
conclusione che non può essere che una M.G. 34 od una M.G. 42. Un Bren
inglese è da escludersi perché ha i caricatori e non i nastri.
Se c’è qualcosa
nella vita che io abbia disperatamente desiderato dall’età di quattordici anni
è stata una Maschinen Gewehr 42. Ho cominciato a desiderarla nella primavera
1944 quando la vidi per la prima volta sparare nel poligono di tiro di
Mompiano, paesino vicino a Brescia. Giungevano qua per esercitarsi al tiro dei
reparti di soldati germanici. Io ero un ragazzetto sempre ospite in questo
poligono comandato allora da mio zio, Ulisse Putignani, ufficiale dell’esercito
repubblicano. Giungevano qua, come dicevo, e piazzavano le loro armi non sulle
linee di tiro predisposte ma sui terrapieni oltre queste, in postazioni di tre
o quattro pezzi ed aprivano il fuoco su bersagli situati sul rilevato erboso di
fondo campo. Per me era una festa, una gioia indicibile che mi faceva sognare
poi per giorni e giorni questa mitragliatrice. Era essa un’arma assolutamente
nuova per le mie conoscenze in materia che pur non erano poche. Ero uso alla
nostra Breda 37 che con i suoi 38 chili e quattrocentocinquanta colpi al
minuto, mi faceva sembrare quest’arma che ne pesava appena 11,50 e ne sparava
1200/1500 una meraviglia incredibile. Meraviglia incredibile, in effetti, lo
era e se ne resero conto gli Alleati nel 1942 quando essa fece la sua prima
comparsa nella battaglia di “Kasserine Pas” in Africa settentrionale e n’ebbero
conferma qui a Cassino ove, il suo apporto prevalente, sostenne nell’assedio,
il peso schiacciante dei mezzi, dei materiali e delle truppe nemiche.
Mentre rifletto
su quale delle due armi, M.G. 34 o M.G. 42 questa possa essere, riprendiamo il
cammino tra le sterpaglie e le rocce del monte. I carnieri dei miei
accompagnatori, anche se non pingui, cominciano ad essere consistenti, il mio è
scarso ma ora ho altro per
La luce della
torcia rischiara a tratti e male l’uomo che svolge il telo mimetico dal quale
esce un pezzo di storia e di vita passata. Sta lì com’era diciotto anni fa! Il
nastro di munizioni ancora in sede come postovi dalle mani dei soldati
germanici, l’otturatore armato, la sicura inserita! E’ una Spandau che fa
tremare il sangue nelle vene!
Timoroso quasi
che la visione possa sparire e la realtà trasformarsi in sogno, avvolgo l’arma
nel suo telo mimetico e la carico sull’auto con le cassette. Seduto su un
aratro, sotto la luce della torcia, firmo un assegno al mio amico che una volta
incassato, consegnerà il denaro al contadino.
Risaliti tutti in
auto e messici in movimento, dopo poco lasciamo il colono con i cani. Questi,
evidentemente contento dell’affare e di essersi liberato dell’arma che nel suo
immaginario d’anima primitiva doveva rappresentare una gran preoccupazione, mi
regala il suo carniere di cacciagione. Accompagnato
a casa l’altro componente della brigata che mi lascia ugualmente le sue prede
della giornata, rimango solo con il mio tesoro a percorrere le poco illuminate
strade di Cassino. Non posso presentarmi in albergo con quel carico né posso
portarmelo in ufficio. Nonostante la stanchezza proseguo per Roma. Dopo aver
dormito tre o quattro ore, fucile in mano, cartucce in canna, in un viottolo
nascosto al lato della Casilina, proseguo per casa. Albeggia quando scarico i
miei fardelli e li sistemo nell’ascensore. Mia madre mi si fa incontro e
mormora sconsolata: “Ancora!”. Le do un bacio felice e le consegno le coturnici
pregandola di prepararmi la vasca da bagno.
La Maschinen Gewehr 42 è veramente
in ottimo stato malgrado la polvere, il grasso secco che la blocca ed un
leggerissimo strato d’ossidazione sulla scatola di culatta. Campeggia in tutta
la sua bellezza sul mio tavolo di lavoro e non oso toccarla tanto sono
emozionato. Comincio ad analizzarne i particolari per coglierne tutto il
messaggio che la storia m’ invia. L’arma è in posizione di fuoco e dopo i suoi
serventi germanici più nessuno l’ha manipolata. La cinghia di trasporto, di
cuoio scuro, è montata regolarmente quindi l’arma non era in postazione fissa
ma soggetta a rapidi spostamenti. Lo spezzone di nastro da cinquanta colpi non
era unito ad altri ed anche questo fa pensare che l’arma fosse predisposta per
agili e veloci movimenti. Quattro cassette di munizioni danno la certezza che
l’M.G. 42 fosse servita dal mitragliere e due portatori. La mancanza di schegge
nel calcio di legno, nelle cassette di munizioni o di segni sul metallo (come
ho trovate su altre armi) e la sicura inserita, inclinano a far pensare ad un
abbandono non cruento dell’arma, comunque non durante un’azione di fuoco. La
cosa mi sembra strana poiché i soldati germanici non erano certo usi ad
abbandonare senza combattere le proprie armi. Forse una sorpresa notturna li
avrà posti in condizione di non reagire. Chissà? Questo è un mistero che non svelerò mai.
Con religiosità,
dopo i suoi serventi e diciotto anni trascorsi, mi appresto io ora a manipolare
l’arma per la prima volta. Apro con leggera difficoltà il coperchio della
scatola di culatta la cui chiusura è resa dura, nel suo scorrere, dal grasso
secco. Nessuna difficoltà a rimuovere il nastro di munizioni che esce dalla sua
sede come se ci fosse stato posto il giorno prima. Richiudo il coperchio, tolgo
la sicura, rilascio l’otturatore premendo il grilletto e accompagnandolo nella
sua corsa libera. Non oso fare di più per il momento.
Da quel giorno sono
passati molti, molti anni. La sorte mi ha portato, per lunghi tempi, in tanti
luoghi lontani nel mondo e della vita di allora rimane solo il ricordo. Nuovi
interessi si sono sovrapposti a quelli che avevo ai tempi di Cassino,
responsabilità grandi hanno coinvolto me e di riflesso i cari a me vicini. La
tragedia si è abbattuta improvvisa sulla mia esistenza con la violenza
distruttrice di un uragano uccidendo e facendo piazza pulita di tutto, affetti,
persone care, beni, ricchezze, lasciandomi, non richiesta, solo la vita.
Eppure, eppure in
un angolo, in un rifugio recondito, in un ripostiglio protetto, sempre ha
atteso il mio ritorno e quello del sereno
Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.
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08/03/2008 | richieste: 3802 | GIANCARLO LADI
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