In volo di ricognizione dal Volturno a Cassino con uno Stinson L5 residuato bellico dell’esercito americano.
Giornata uggiosa e piena d’umidità questa primaverile del 1958. Le colline al limite della piana di Capua, filtrate da mille stille di pioviggine, svaniscono nel bluastro della lontananza. Il campo di volo, deserto e bagnato, si perde verso il mare in freddi banchi di nebbia, parte sospesi nell’aria, parte adagiati al suolo. L’erba pregna d’acqua inzuppa le scarpe e scricchiola sotto i passi. Nell’hangar silenzioso, quattro o cinque fantasmi di piccoli aerei sembrano implorare qualcuno che gli faccia compagnia. Un aviere assonnato mi si fa incontro e mi chiede se voglio volare. Alla mia risposta affermativa, comincia a trafficare presso un monorotore ad ala alta che mostra tutto il peso della sua età e della sua aristocratica importanza. E’ un veterano dell’ultima guerra, l’ha sicuramente combattuta qui e poi, affezionatosi ai luoghi, non se l’è più sentita di andarsene. Deve aver trascorso lunghi anni polverosi e tediosi in questo capannone fino a che mani pietose di meccanici ed avieri non gli hanno riparato gli acciacchi e lo hanno riportato fuori all’aria. Suo padre putativo è un gagliardo maresciallone un pò in là con gli anni che me lo ha affidato ben sapendo quanta affinità elettiva mi leghi ai totem della trascorsa guerra. Lui, uno Stinson L5 (perché è di questo che stiamo parlando), al contrario dei suoi fratelli di serie addetti all’osservazione dei tiri d’artiglieria od alla piccola ricognizione, la guerra l’ha fatta in sanità. Modificata la fusoliera per ospitare una barella, il suo compito consisteva nell’allontanare dal campo di battaglia morti o feriti. Oggi, giorno festivo per il mio lavoro, ho deciso di riportarlo, come già ho fatto più volte nei mesi passati, su quei luoghi che ben conosce per avervi avventurosamente operato. In questa grigia mattina di tarda primavera ho unito la mia solitudine alla sua ed insieme ci apprestiamo ad avviarci nei cieli del passato per scambiarci qualche impressione su episodi ed eventi di nostra conoscenza o magari per compiangerci reciprocamente con affetto.
Aiuto l’aviere a spingerlo fuori dell’hangar nel prato ed inizio il giro d’ispezione a tutte le sue parti esterne.
E’ un bel velivolo robusto, sicuramente non molto usurato e supponendo che sia stato costruito nel 1942 o nel 1943
dovrebbe aver quattordici o quindici anni. Terminato il controllo esterno m’installo nell’abitacolo ed inizio la
procedura per la messa in moto. L’aviere ha avvicinato il grande estintore a carrello ed attende mie istruzioni.
Il mio maresciallone mi fa trovare sempre il serbatoio pieno d’ottimo carburante dell’aeronautica militare in modo
che le mie modestissime finanze non abbiano a soffrire. Ha provveduto pure a fornirmi una radio di surplus di un
caccia “Vampire” adattandola egregiamente al mio aereo anche se il laringofono mi stringe malamente il collo
rigandomelo tutto. Accessorio che non posseggo è il paracadute. L’abitacolo non consente di indossarlo. D’altronde
l’uscita dal velivolo in volo è praticamente impossibile con quei suoi strani sportelli che il vento tiene sempre
chiusi ed i tiranti dell’ala proprio davanti all’apertura. Alla mancanza del paracadute il mio maresciallo ha
sopperito con lunghe lezioni e suggerimenti sul come prender terra in caso d’emergenza, sul come infilarsi tra due
alberi vicini in modo che la carlinga passi tra i medesimi e le ali, spezzandosi contemporaneamente sui tronchi,
fermino l’aereo senza danno per il pilota (?), ecc.. Dimenticavo di dirvi che il maresciallone, di cui parlo con
tanta benevolenza, ha fatto la guerra sul serio, come cacciatore sui Macchi 202 e 205, perciò in queste cose è
giocoforza dargli credito.
All’avviso: “via dall’elica”, l’aviere si scosta ed io accendo il motore. Lo faccio girare cinque minuti,
controllo i parametri, azzero l’altimetro, apro la radio e comincio a ricevere i dati metereologici dalla torre di
Napoli Capodichino, rullo lentamente verso la pista erbosa. In testata pista mi allineo e do tutta manetta tenendo
premuti i freni per provare il motore al massimo dei giri. Diminuzione del gas, barra in avanti, rilascio dei
freni, inizio decollo. Tutta potenza, a metà pista lento richiamo dell’aereo, distacco delle ruote dall’erba, volo
in cabrata e assetto orizzontale. Mentre faccio quota aziono il tergicristalli, pioviggina, cumuli nembi bassi,
vento da SW dieci nodi. Il Volturno è sotto di me, il mare un pò più in là alla mia sinistra. Continuo a cabrare
fino a duemila piedi poi livello l’aereo. Motore duemilaquattrocento giri, rotta per Nord Ovest.
Mi porto sulla Casilina deciso a percorrerla tutta fino a Cassino. Sulla destra monte Maggiore con i suoi
tremilaquattrocentocinquanta piedi mi sovrasta un bel po’ mentre sulla sinistra Teano si adagia e nasconde tra il
verde dei boschi e dei prati. Chissà cosa ne pensa il mio compagno di volo nel rivedere questi posti dopo tanti
anni e nel sorvolarli con serenità senza pericoli di caccia o contraerea, senza doversi destreggiare a bassissima
quota tra colline, canaloni o zone d’ombra? Sotto un cielo nuvoloso ma senza pioggia c’impegniamo nella valle che,
iniziando a farsi angusta, porta alla stretta di Mignano ove i ricordi, le emozioni si fanno forti e vivi nel
riconoscere particolari del terreno che parlano d’eventi grandi e terribili. Passo sulla verticale di Montelungo e
monte Rotondo dopo essermi lasciato dietro le spalle il feudo d’Ettore Fieramosca e le profonde forre del Varo dei
Lupi e dell’Ariani. Sulla destra San Pietro Infine arroccata a mezza costa del massiccio del monte Cesima è tutta
un cumulo di macerie. Sulla sinistra monte Camino, con la sua altitudine, guida il volo verso il Liri. Ecco monte
Trocchio che sbarra la valle ed ha un andamento completamente ortogonale alle altre formazioni montuose. Cervaro
che tante storie di lotta suscita nella mente, con la sua posizione chiave per l’accesso alla valle, è adagiata
alle pendici orientali del monte stesso. Da qui i vertici delle soldatesche alleate assistettero allo spettacolo
della distruzione dell’abbazia ed al cretino bombardamento di Cassino che tanti guai poi avrebbe loro riservato.
Sorvolato monte Trocchio la valle si apre ed il massiccio di monte Cairo con lo sperone di Montecassino appare in
tutta la sua maestà. L’abbazia è in ricostruzione ed il bianco delle sue mura di pietra stride con il verde cupo
del paesaggio. Questo corpo estraneo nuovo nuovo fa a pugni con la natura circostante. Mi da fastidio, in una
mattinata plumbea, piena d’evanescenze primaverili, vedere questa specie di torta nuziale posta, in posizione
dominante sul roccioso bastione del monte, nello scenario delle valli e dei rilievi. Viro sulla destra facendo
quota fino a tremila piedi e costeggio i monti del fondo valle Ovest. Sorvolo strette valli, profondi burroni,
costoni dirupati, piccoli e famosi paesini come Sant’Elia Fiumerapido, Terelle, Caira. Cassino, in ricostruzione,
è sulla sinistra, avanti nella piana i nastri d’argento del Gari, del Liri e del Garigliano che si perde verso i
monti Aurunci. Viro in cerchio sull’altopiano di Montecassino e perdo quota per portarmi in prossimità dei
capisaldi dei difensori. Quota 593, quota 575, monte Castellone, colle S. Angelo, colle Maiola. Recupero e perdo
quota in continue spirali sulla scena degli scontri pensando a quanti aerei prima del mio saranno di qui
sfrecciati in un carosello di fuoco, di morte. Quanti motori avranno riempito del loro rombo i giorni e le notti
di questi colli. Quante armi avranno cercato di abbatterli, quante bombe o quanti rifornimenti saranno stati qui
sganciate o paracadutati. Non so resistere dall’effettuare un ultimo passaggio d’addio, a volo radente, sul
pianoro dell’Albaneta. Lancio con la pistola da segnalazione un razzo rosso di saluto ai paracadutisti del mito,
agli indiscussi vincitori delle lotte sul baluardo inespugnabile, agli eroi della saga di Cassino.
Mentre lentamente il razzo scende, con il suo paracadute, sulla leggendaria “masseria” drizzo il muso ad Est,
verso il mare e lascio il bastione montuoso della memoria che tanto mi ha emozionato, commosso. Il pulsare
regolare del motore pare dirmi che anche il porta-bare volante è soddisfatto del volo e quanto me eccitato.
Sorvolata tutta la piana della “Linea Gustav” lungo i fiumi, lasciati gli Aurunci a destra, sulle spiagge del Tirreno scendo a mille piedi e procedo lungo la costa. Mare mosso morente da Sud Ovest, brezza di mare sostenuta al traverso, parametri di volo nella norma. Sento in cuffia gli aerei che decollano ed atterrano a Capodichino chiacchierando con la torre, sono quasi tutti delle portaerei americane e fanno la spola tra le unità nel golfo e Napoli. Io vivo in un altro mondo ed in un altra epoca, viaggio da solo fuori del traffico regolamentato. Ho un aereo tutto per me, un aeroporto tutto per me, una storia tutta mia in cui rotolarmi per riviverla quando ne ho voglia ed oggi, invero, io ed il mio veterano volante l’abbiamo fatto abbondantemente. Mondragone avverte che stiamo per arrivare alla foce del Volturno. Infatti, è laggiù che mischia le sue acque giallastre con quelle del Tirreno. Raggiuntolo lo risaliamo fino a Capua. Getto uno sguardo al mio cantiere di lavoro, sul fiume, qui sotto. Oggi è tutto addormentato per il riposo settimanale. L’acqua gorgoglia sonnacchiosa tra le pile del ponte in costruzione mentre io, dopo aver effettuato il regolamentare giro di campo, mi allineo alla pista, do metà dei flap, riduco motore ed atterro.
Sono passati quarantasei anni da quel giorno. Sono vecchio. Nella mia libreria c’e un libro rilegato in pelle
marrone sulla copertina del quale, in lettere d’oro impresse a fuoco, è scritto: “Aviazione Civile Italiana –
libretto di volo”.
Alla pagina cinque, alla data del 29 giugno 1958 è registrato:
Ripongo il libro, chiudo gli occhi e come il vecchio del mare, sogno i leoni.
Nel caso in cui il testo derivi sempicemente dall'esposizione, con o senza traduzione, di documenti/memorie al solo fine di una migliore e più completa fruizione, la definizione Autore si leggerà A cura di.
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