LA VITA AVVENTUROSA DI GIANNI RAS
Data: 10/01/2010Autore: GIANNI MOROCategorie: TestimonianzeTag: italia, veterani-reduci

NOTA DI AUTORIZZAZIONE
I contenuti di questa pagina sono tratti integralmente da Gianni Moro, "La Vita Avventurosa di Gianni Ras", edito in proprio - 2006.
L'utilizzo in questo sito internet di alcune parti di questo volume (quelle che narrano dei fatti precedenti o subito seguenti gli eventi di Cassino), è stato espressamente concesso dall'autore.

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LA VITA AVVENTUROSA DI GIANNI RAS

Premessa

Proponiamo ai nostri lettori la trascrizione integrale di alcuni capitoli del libro dell'artigliere Sottotenente Gianni Moro, scritto nel 2006.
Moro fu inquadrato nel 11° Reggimento Artiglieria, 2° gruppo, 6ª batteria; una delle unità del 1° Raggruppamento Motorizzato.
Nella stesura che proponiamo non è stato tolto, corretto o modificato nulla del testo originale; ci siamo limitati ad aggiungere alcune note esplicative.

Presentazione dell'autore

Questo libro l’avevo in mente fin dal mio ritorno a casa dalla Guerra di Liberazione, avevo appunti fatti durante le battaglie sostenute per la liberazione dell’Italia dal teutonico nemico; appunti che trovati da mia madre, ritenendoli alcuni, poco morali, distrusse.

Però in me rimase sempre quell’ansia e quella tensione che mi aveva tenuto quasi in uno stato di febbre continua nella ascensionale vita. In quella marcia avventurosa con le mie imprese calcistiche ed il mio girovagare per il mondo mi erano mancati momenti di bellezza e di poesia per ievocare tutti i miei giorni vissuti.

Tutto ciò che vidi in Italia e per più parti dell'emisfero è sublime, però per chi è nato tra le Alpi ed il Po non è mai possibile trovare altrove visioni di monti nevosi, di pianure verdeggianti a perdita d’occhio, di fiumi erranti tra boschi e prati lussureggianti, di città popolose ed industri, di villaggi silenziosi e pingui, che sono proprie della sua terra, ne trovare altra gente che gli sia famigliare come la sua gente.

LA GUERRA

Note | Indice

Vita militare

Una mattina d’Agosto del 1942 io e Beniamino prendiamo la Corriera, che fa fermata all’Osteria dee Borate, meta il Distretto Militare di Treviso per prendere il biglietto ferroviario con destinazione Bari al corso Allievi Ufficiali.
Mi è rimasta impressa nella mente questa scena: mio padre e mia madre, che percorso il viale della Stazione aspettano il passaggio dell’automezzo per darmi l’ultimo saluto agitando le braccia in alto, quale abbraccio al figlio partente, in quel periodo non roseo per il prolungarsi degli avvenimenti bellici.
Durante il viaggio incontriamo altri tre trevigiani che hanno la stessa nostra destinazione: De Polo Bruno, Scardellato Lelo, Parpinelli Giovanni tutti e tre da Oderzo.

Arriviamo a Bari verso le 19 e De Polo non vuol andare in caserma, preferisce trovare una camera e dormire ancora una notte da borghese. Cos’era una notte, quando dopo ne feci ben 1091 sotto la naia. Non volli esser «Bastian contrario» ed accettai.
Finalmente a Bari nella grande Caserma: un grande terreno interno, meta di estenuanti esercizi tra avanti marsc, di corsa, attenti, riposo, presentat’arm, fianc’arm, canti, e pochi rompete le righe.
Bari, città, posta a metà della costa pugliese, serrata e compatta tra vicoli tortuosi dove, all’ombra di insigni monumenti, si è svolta tutta la storia antica, si contrappone la nuova, che si è sviluppata nel secolo XIX su una pianta regolare a vie rettilinee.
Oggi si può aggiungere una terza Bari, la nuovissima, che nel ‘900 ha abbondantemente scavalcato da ogni parte il tracciato ferroviario, avendo come punti di riferimento la zona industriale e la Fiera del Levante.

La nostra caserma era posta proprio al di là della linea ferroviaria ed ogni sera, chi andava in libera uscita, doveva attraversare il ponte sopra la strada ferrata.
La vita di caserma è una cosa tutta particolare e il primo impatto è pesante, ma dopo qualche settimana hai fatto il callo e tutto fila più liscio. Il pranzo non è quello famigliare: pastasciutta o brodo condito con pezzi di zucca bacira (sarebbe una zucca gialla lunga un metro e più).
Si dice che i baresi coltivano questa zucca per darla da mangiare esclusivamente ai maiali.
Alla sera brodo ed un pezzetto di carne, due pagnottelle di pane confezionato con il 70% di farina di mais ed il 30% con farina di frumento.
Mio padre aveva uno stipendio di mille lire al mese ed era un’ottima paga, tanto che c’era in voga in quel periodo una canzone che diceva: "Se potessi avere... mille lire al mese..." ed ogni mese mi mandava cinquecento lire.
Con questa somma ero il più ricco di tutti i 103 allievi ufficiali del corso, e dire che c’erano allievi con un padre che guadagnava un milione al mese, e questi figli di ricchi venivano in prestito di soldi dal sottoscritto, con restituzione all’arrivo del vaglia paterno che al massimo era di trecento lire. Cosa si dovrebbe dire a quel padre che si privava di mezzo stipendio per aiutare il figlio?

Alla sera il mio rancio lo donavo a Berto da Oderzo che aveva sempre fame; uscito dalla caserma cenavo al Ristorante "Petruzzelli" che prendeva il nome dal famoso "Teatro Petruzzelli" incorporato col ristorante e che nel 1990 prese fuoco per un fatto doloso.
A Fanzolo c’era un certo Luigi Marin di professione fornaio, in quel tempo prigioniero degli inglesi in Sud Africa, ed il suo negozio era gestito dalla moglie Mena mia carissima amica, in seguito entrerà nel legame di parentela sposando sua nipote.
Siamo nel periodo della tessera annonaria per l’acquisto del pane e più di quel tanto non potevi avere.
Non so come facesse la Mena, mi mandava attraverso le lettere dei miei genitoriuna buona scorta di bollini per l’acquisto del pane.
Quando entravo al "Petruzzelli" due o tre camerieri mi si facevano incontro e con garbo e moine varie erano sempre attorno al mio tavolo, sapendo che per mancia davo dei bollini, acquisto pane, a ciascuno.
Più volte, alti ufficiali in altro tavolo si lagnavano con il proprietario del locale, dovevano chiamare ripetutamente un cameriere per dare le commende, mentre uno "sbarbatello caporale allievo ufficiale" aveva sempre più di un cameriere a sua disposizione.
Don Abbondio direbbe: "Carneade chi è costui"?

Mi ricordo ancora il prezzo che pagavo per una pastasciutta o risotto e un pezzo di coniglio o pollo, vino e contorno: lire 20,00.
Dopo due mesi che ero a Bari, mio padre venne a trovarmi: lo condussi per la città, ma era più entusiasta della veduta di suo figlio che delle bellezze del luogo.
Ancora alla sera partì, cosi si fece due notti consecutive in treno per vedere suo figlio. Ora sentiamo fatti orribili dove madri sopprimono i figli per essere libere dal peso che queste creature le opprimono.
A Bari imparai a cavalcare; una volta alla settimana c’era equitazione, inoltre avevamo dei muli per il trasporto del cannone smontato e ad ogni marcia ti davano un mulo in consegna. Spesso mi capitava Celestino, mulo intelligente e buono ma aveva un difetto: potevi caricargli anche due fusti di cannone e lui portava tutto sulla groppa, ma non poteva soffrire se lo imbrigliavi per trainare un carro, non poteva sopportare le due aste di legno (in dialetto "stanghe") che sono poste ai fianchi del mulo e servono come timone.

Prima della fine del corso Grandi Manovre con sparatoria ad un ipotetico nemico; per la verità quando mi capitò, più avanti, di sparare ad un vero nemico, constatai che alle Manovre non avevo capito nulla, solo il botto del cannone mi restò impresso.
Si era accampati in un capannone e si dormiva per terra e con poca paglia ma eri così stanco del lavoro giornaliero che non sentivi il duro pavimento.

Un giorno, mentre ero ad Altamura, passai davanti ad un cimitero e visitai parecchie tombe, ad un tratto mi trovai davanti ad un ritratto di una fanciulla posto sopra il bianco marmo della sua eterna dimora.
Appassionato di fotografia fui colpito dal volto di quella diciassettenne fanciulla morta nel fiore della vita; il suo volto, con un sorriso innocente e delicato, sembrava quello della Gioconda di Leonardo da Vinci, rimasi un pezzo ad ammirare la bellezza di quella povera creatura.
Ogni volta che passavo davanti alla sua tomba andavo ad ammirarla e pregavo per la sua anima.
Ritorno a Bari, esami e nel dicembre 1942 con il grado di sergente allievo ufficiale inviato a casa con licenza di 30 giorni.

Ai primi di gennaio 1943 ricevo ordine di presentarmi alla Scuola di Nocera Inferiore; con mia somma gioia assieme a me c’è, ancora una volta, l'amico e compaesano Beniamino. Vidi poco Nocera Inferiore, rimasi in quella cittadina 15 giorni e per otto sere fui consegnato in caserma.
Un ordine sciolse il Corso per dar modo ad altri allievi ufficiali, non più d’artiglieria, di sostituirci e noi fummo a gruppi, sparpagliati un pò per l’Italia in altri Corsi d’Artiglieria.
Una volta ancora noi due da Fanzolo ed i tre da Oderzo siamo nella stessa Caserma di Pesaro, che da come il militare veniva trattato la chiamavano "La Pensione Biocca" dal nome del Colonnello che la comandava.
Ottimo vitto, disciplina, ma non quella eccelsa che non serve a nulla per formare un buon soldato. Manovre con il traino dei pezzi a mano per non consumare benzina necessaria a chi è al fronte. Finale a Cagli per le grandi Esercitazioni.
Rientro a Pesaro e esami, su 210 allievi al corso mi piazzai quindicesimo.

Il 25 Luglio 1943 il Re Vittorio Emanuele III fa arrestare Benito Mussolini dopo che Dino Grandi il giorno prima nel Gran Consiglio Fascista aveva presentato una mozione di sfiducia al Duce dopo lo sbarco Anglo Americano in Sicilia, ed affida il governo a Badoglio.
Noi allievi ufficiali abbiamo terminato il Corso e siamo impiegati come guardie a depositi di prede belliche (cannoni e automezzi) o a palazzi in città.
Ai primi di Agosto in licenza con nomina a SottoTenente e devo presentarmi il 2 settembre a Lecce.
Il primo settembre parto da Padova verso le 23 e dopo parecchie ore di treno arrivo alle 12 del giorno dopo alla stazione di Foggia. Quì mi rendo conto cos’è la guerra e quali sono i suoi orrori.
La stazione è stata bombardata più volte, carri merci sventrati, vetture accavallate, vari tratti di rete ferroviaria completamente mancanti, crateri prodotti dalle bombe degli aerei americani un pò ovunque, ed il treno che lentamente entra in stazione facendo un tragitto a zig zag come normalmente fa un sciatore in una gara di slalom.

Ora capisco che andiamo incontro ad altra vita, ma la giovane età e l’amor patrio ti danno sempre un che di forza e di speranza. Pensai: "Caro Gianni qui comincia il bello, sono finiti i bei giorni, anche tu stai per entrare nel "caglierone" della battaglia".
Arrivo al pomeriggio a Lecce, trovo una stanza in affitto che divido con l’amico De Santis anche lui ufficiale di prima nomina.
Il 5 settembre 1943 giuramento: mano destra sopra una pistola, davanti al Colonnello Comandante leggo la rituale formula di fedeltà alla Patria.
Faccio amicizia con un capitano di Torino, professore delle scuole superiori, e tra i tanti discorsi mi racconta di aver trovato studentesse che gli suonavano il violino in modo magistrale.
Io ridevo e per non esser da meno alla sera facevo le ore piccole con una certa Antonia su un prato posto non lontano dalla Caserma.
Di fronte allo stabile dove ero alloggiato conosco una tenera fanciulla, Mariella, quattordicenne ma dal suo portamento sembrava avesse 17 anni. Spesso al pomeriggio l’accompagnavo ai giardini per esternarle amore e baci a profusione rispettando il suo candore.
La vita che trascorrevo a Lecce non era monotona anzi piena di suspense e di ore liete.
Constatai, dai discorsi di Mariella, che le ragazze del meridione erano molto più emancipate delle nostre settentrionali, me ne convinsi quando partito per il fronte, Mariella mi scriveva delle lettere che si e no sapeva scrivere una laureata.
Risposi due o tre volte poi col turbinio della guerra, che descriverò più avanti, preferii perderne le tracce, ma mi rimase in mente, per lungo tempo, il ricordo di quella cara ragazza.

L’8 settembre 1943, il Re d’Italia, Vittorio Emanuele III e il Maresciallo Pietro Badoglio, Capo del Governo, pongono fine alla guerra contro americani ed inglesi e nei giorni successivi insediato il nuovo governo a Brindisi, dispongono la cobelligeranza delle truppe italiane per combattere contro gli invasori tedeschi.
Si costituisce il 27 settembre 1943 il 1° Raggruppamento Motorizzato Italiano a soli 19 giorni dall’Armistizio.
Il 1° Raggruppamento si forma nella zona di San Pietro Vernotico (paese del celebre cantante Domenico Modugno) in provincia di Lecce, con reparti delle Divisioni Legnano, Mantova, Piceno e del Corpo d’Armata, circa 5000 uomini comandati dal generale Dapino.
Il 22 settembre 1943 sono trasferito in una Batteria assieme al s.Tenente De Santis, qui trovo il Tenente Annecchino Raffaele da Foggia. La mia nuova batteria non aveva il comandante, questi era andato in licenza a Torino, il proclama di Badoglio lo aveva bloccato al nord, mentre le truppe tedesche avevano posto il fronte di guerra sulla parte meridionale dell’Italia, quindi strade interrotte per il rientro.
La mia nuova batteria era composta da soldati anziani con parecchi anni di servizio. Un giorno Annecchino mi dice: "Trovati un attendente" e scelsi un fiorentino, Pini Cesare, intraprendente ed amante delle belle donne e dei piaceri femminili.

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Airola

Trasferimento della batteria ad Airola sita vicino ad Arpaia, paese affacciato sulla Valle Caudina, ove c’è la stretta in cui vengono identificate le Forche Caudine dove i Romani nel 321, avanti Cristo, furono presi in trappola e sconfitti dai Sanniti.

Per strada troviamo una colonna continua di automezzi americani che vanno verso est, mentre noi procediamo verso ovest. Tutti vanno a rilento, ad una fermata incrociammo una colonna americana ferma sull’altra corsia.
È mezzogiorno e i soldati americani stanno mangiando delle scatolette di carne, un soldato appoggia la scatoletta di carne, appena aperta, su un parafango della sua macchina e si volta dall’altra parte dialogando con i suoi compagni.

Dopo pochi secondi, senza voltarsi, cerca con la mano la scatoletta... ma incredulo la scatoletta è sparita. Un metro più in la c’è un mio soldato, l’americano capisce tutto e si mette a ridere pensando: "quanto svelto sei stato" ed essendo di origine italiana, domanda qual’è il rancio del soldato italiano. L’autore del furto risponde: "quando siamo in marcia una scatoletta di carne e due gallette per ogni due soldati, al giorno". L’americano resta perplesso e dopo un sorriso entra nel tre assi (autocarro), prende 6 scatolette di carne e le offre ai miei soldati.
Ora lo stupore è dall’altra parte e con i ringraziamenti tutti si affrettano ad aprire le scatolette e mentre la colonna americana si muove si intrecciano... thank you america... thank you John... bye taliano... bye....

Arriviamo ad Airola e i soldati sono alloggiati nelle scuole comunali, io assieme al Pini in un appartamento con tre stanze e servizi. Qui arriva il nuovo comandante di Batteria, Franco Salsilli veneziano, capitano di carriera.
Dopo pochi giorni ci riunisce nell’edificio scolastico e ci fa un discorso per tirar su il morale, in vista della nostra prossima entrata in guerra. Parlai a lungo, nei giorni che seguirono, con questo valido personaggio tutto dedito alla difesa della Patria.
Cerco di entrare in simpatia con la truppa, non do peso dei miei gradi, ma considero i soldati miei amici e compagni, con la sola differenza che devono darmi del Lei, non mi sarei risentito se il Tu entrasse nei nostri discorsi, ma la regola militare esige tale rispetto.

Da una frase del Capitano che osservando il misero vestiario dei suoi soldati in un discorso li paragonò a dei "fagotti", e chi è veneto conosce la terminologia di detta parola, battezzai quindi la batteria, non più la Sesta, ma la Batteria Fagotti.
Il Secondo Gruppo da 100/22 (il mio) al comando del Maggiore Vincenzo Vitello, siciliano sposato con una benestante di Conegliano, con aiutante maggiore in 2ª Capitano Francesco Ingallati e Tenente Enrico Mauri erano a conoscenza del nome e rispettavano, per la rettitudine, gli appartenenti alla Batteria Fagotti, soprattutto per la bravura del suo Capitano, addetto alla direzione di tiro delle tre batterie del Gruppo sopra citato, che con pochi colpi colpiva il bersaglio a parecchi chilometri di distanza.

Con il s.Tenente Giudici e il s.Tenente Ezio Tosi creammo una canzone intitola ai Fagotti sull’aria di una canzone allora in voga in cui si parlava: "... drin, drin c’è Bovolenta falso scopo della batteria guarda a destra e guarda a manca... ma val men de na palanca...» (Giovanni Bovolenta, ferrarese, mitragliere, con un occhio un pò sbilenco) e di "drin... drin c’è... il Tenente Moro... la camorra lui sa far... ma è allegro e ci fa cantar...".
La camorra si riferiva a quando andando a prendere i viveri al Comando Munizioni e Viveri; alteravo il numero dei soldati presenti in batteria e così potevo avere razioni di vino e cognac più abbondanti. Una volta mi trovai con 150 litri di vino in più con somma gioia dei miei artiglieri.
Nell’appartamento ove abitavo c’era la ventenne Giuliana, aveva il marito sotto le armi, focosa e bella ragazza con la continua guardia del vecchio suocero, ma ogni tanto il sottoscritto era più lesto a comparire ove c’era la ragazza e la coprivo di baci. Un giorno, il vecchio era assente perché in paese: la vidi... precipitarsi su di me, intento a vedere da una finestra il tempo piovoso, baciarmi con violenza... avvinghiandosi al mio collo... e costringendomi dopo un pò ad un urlo... Mi aveva morsicato un labbro,... ferita,... il cui lieve segno... si poteva notare anche dopo vario tempo. Credo, che se un giorno la avessi potuto adagiare sul campo di frumento, posto a nord del fabbricato ove alloggiavo,... il suo deretano, con il turbinio dei movimenti «peristaltici» avrebbe piegato buona parte delle spighe del terreno coltivato.

Il 4 dicembre sono comandato a prelevare delle munizioni a Taranto. Parto con quattro camion ed arrivo a sera a Taranto. Rimango sbigottito quando guardando il mare vedo un semicerchio di navi bloccare, al largo, il porto; si può dire oscurassero il cielo data la stazza e lo stretto contatto tra loro.
Tra me dissi: "Alla faccia degli americani... questi sì, hanno i mezzi per fare la guerra". In seguito, quando entrai in guerra al loro fianco, mi accorsi com’è assistito il soldato sia di materiale bellico che di vettovagliamento.

A Taranto cerco un posto per dormire, alberghi liberi nemmeno l'ombra, tutto requisito da ufficiali americani ed inglesi.
Un albergatore m'indica una casa che dava alloggio a forestieri, mi precipito e trovo un posto in una stanza non tanto grande, dove ci sono 12 giacigli.
Accetto e penso: questo è meglio della tenda: ma alla notte uno russa, l'altro tossisce, quello va al gabinetto, l'altro suona ... la tromba... e cosi via fino al mattino.

Il 5 dicembre porto i quattro camion al Reparto Munizioni, carico e via per Airola.
Arrivo ad Airola verso sera, trovo solo il Comando, la truppa è già partita per il fronte.
Al 6 dicembre parto anch'io per il fronte di Monte Lungo con i camion e dopo una estenuante faticata per il congestionato traffico arrivo a circa due chilometri dal punto dov'era la mia batteria; è notte fonda, non conosco la strada, mi metto sotto un boschetto a circa 20 metri da un cannone da 210 americano.

Verso mezzanotte una cannonata tedesca lacera il silenzio notturno e mi fa sobbalzare mentre dormivo sopra il carico delle granate. Salto già; dal camion e cerco un riparo, ma dove, non ci sono buche o ripari di sorta e così seduto di fianco ad una ruota del mio automezzo osservo, con meraviglia, il 210 americano che spara, una dietro l'altra granate alla batteria tedesca, che nel frattempo si era fatta sentire più volte.
Sembrava la fine del mondo, proiettili che partivano con una lunga fiammata ed un suono lacerante e granate che esplodevano nelle vicinanze con schegge che sibilando andavano a conficcarsi negli alti alberi del bosco.

Dio volle che dopo una mezz'ora tutto si acquietò e potei ritornare al mio giaciglio pensando tra me: "Gianni, questo è il tuo primo giorno di guerra, se non ti capita niente è anche un pò divertente", sembrava di essere nella piazza di Fanzolo a godersi i fuochi artificiali alla sagra dei Santi Salvatore e Corona, i protettori del paese.
Al mattino del 7 dicembre 1943 15 aerei tedeschi sono sopra di noi, ma quando i primi sette picchiano verso le postazioni americane ed italiane,... sono abbattuti da un fuoco di sbarramento di circa 280, tra cannoni antiaerei e mitragliatrici: i rimanenti non tentano nemmeno la picchiata, fuggono precipitosamente.

Un aereo cade a circa 100 metri dalla postazione del 210 americano, accorriamo sul punto dell'impatto e troviamo una grossa buca che aveva inghiottito la parte centrale dell'aereo, del pilota, una bionda ciocca di capelli appiccicata ad un pezzo d'ala.
Parto verso le 10 e dopo poco sono in Batteria con le munizioni che distribuisco alle tre batterie del 2° Gruppo obici da 100/22.
Il giorno dopo, 8 Dicembre 1943, sarà il grande giorno del 1° Raggruppamento Motorizzato Italiano comandato dal generale Vincenzo Dapino.

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Battaglia di Monte Lungo

Lungo Sulla statale n. 6, la Casilina, di fianco alla ferrovia Napoli Roma, vi è un’altura oblunga che sbarra la direzione a Mignano; è una dorsale isolata a tre gobbe, orientata nel senso dei meridiani, ha il vago aspetto di un enorme cetaceo in emersione. Uscendo in faccia ad esso, dal profondo della stretta di Mignano, la via Casilina e la ferrovia l’abbracciano dai due lati.
È una spina che s’innesta con la punta nella stretta, come un tappo nel collo della bottiglia: un dosso allungato, scoperto e roccioso, spezzato in una serie di ondulazioni d’altezza di 343 metri.

Immagine da satellite - Google Maps

A vederlo così basso, spoglio, brullo, Monte Lungo, (questo il suo nome) lo si direbbe un monte carsico, un panorama della guerra 15/18. I tedeschi occupano i dossi più elevati di quella dorsale, mentre le pendici sud-orientali sono presidiate da truppe statunitensi del 141° reggimento fanteria.
La storia del primo intervento italiano in linea a fianco degli alleati comincia dunque in questa cornice. Alla fine di novembre, infatti, gli alleati, dopo un esame in piena regola hanno deciso di impiegare gli italiani, di dare loro il contentino che chiedono. Questa risoluzione è già stata presa fin dal giorno 29 del mese con un ordine del giorno stesso che dice testualmente: "Si prenderanno provvedimenti per attaccare, conquistare e mantenere Monte Lungo".

Sono in batteria, mattino 8 Dicembre 1943, giorno fatidico della battaglia di Monte Lungo.
Il 1° Raggruppamento Motorizzato Italiano facente parte della 5ª Armata Americana, agli ordini del generale Clark, ha il compito di conquistare Monte Lungo. Il monte era avvolto da una fitta nebbia, visibilità di circa 15 metri, i fanti erano immersi in un fango attaccaticcio, malvestiti, con armamento ridotto ed erano stati tutta la notte sotto la pioggia.
Tutta l’artiglieria (io comandavo la seconda sezione della 6ª Batteria del 2° Gruppo dell’11° Reggimento Artiglieria del 1° Raggruppamento Motorizzato Italiano) alle 5,30 concentra il fuoco contro le postazioni nemiche e fanti e bersaglieri, superata la base di partenza, infrangono le prime difese nemiche e puntano sulla parte alta del monte, quota 343.

Fin dal primo momento la lotta si manifesta aspra e cruenta.
La fitta nebbia fu una benedizione a metà, perché dette la possibilità alle compagnie principali di prendere il nemico di sorpresa, ma impediva il supporto dell’artiglieria necessario; l’ufficiale addetto al tiro, dall’osservatorio grida al Comando: "Chiedono fuoco... ma dove sparo se non so dove sono le avanguardie... non vedo niente!"
I fanti arrivano combattendo su un pianoro... ma... ahimè... la nebbia, di colpo sparisce, ed i poveri fanti e bersaglieri si trovano su un terreno senza alcun punto di difesa, allo scoperto e sono bersaglio facile per i tedeschi nascosti entro le loro buche e fortini, e giocano al tiro bersaglio come se fossero in un baraccone da fiera paesana.

Il capitano Enzo Corselli si lascia dietro un ostacolo dopo l’altro, lungo la linea di cresta, perdendovi però la totalità degli ufficiali e numerosi uomini di truppa.
Pier Antonio Muttoni, allievo ufficiale dei bersaglieri, con la sua compagnia viene sorpreso da un violentissimo fuoco di mitragliatrici e di mortai, si hanno i primi morti e feriti, sparano da tutte le parti, dalle postazioni che sono di fronte, dalle caverne, dal fianco, dal terrapieno, dalla linea ferroviaria e dire che il rapporto degli americani aveva detto ai nostri Comandi "Monte presidiato da alcune mitragliatrici c’è solo un velo protettivo" e Muttoni:... "alla faccia degli americani".
Ed io avendo combattuto per 18 mesi con loro dico: "Sempre faciloni questi americani... ma chi paga siamo noi". La 2ª Compagnia è letteralmente decimata, il Tenente Collina si abbatte al suolo con una scapola infranta. Il Tenente Camporota avanza alla testa di un gruppo lanciando bombe a mano ma dopo pochi metri si accascia con il cranio sfracellato da una granata nemica.
Pochi istanti dopo il Sottotenente Cederle è ferito gravemente ad un braccio, non molla e continua a risalirela china... grida più volte: "Avanti... avanti... la quota è nostra" e continua la sua corsa finché, nell’intento di balzare entro una caverna, una raffica da distanza ravvicinata lo falcia.

Il Sottotenente Gaj, milanese, attacca con bombe a mano, getta una bomba contro una postazione nemica e viene seguito da un gruppo di coraggiosi come lui..., un difensore tedesco gli si para avanti a mani alzate e viene da lui stesso catturato. Gaj, per consegnare il prigioniero, si volta indietro ma... non vede più nessuno dei suoi... sono morti o feriti dietro le sue spalle... la lotta continua e poco dopo anche Gaj cade.
Guido Branzoni da Erba, è perito chimico e il 1942, un anno prima l’azienda ove lavora, aveva chiesto il suo collocamento in congedo. Alla partenza, nel salire nell’ autobus per ritornare al suo paesino, i compagni lo avevano visto cupo, commossi addii, malinconia delle prime ore senza il loro Tenente.
Alla sera stessa Branzoni era ritornato pieno di allegria: aveva stracciato il foglio di richiesta della ditta. Ora dopo la battaglia viene trovato morto accanto ai corpi di quattro suoi soldati che lo avevano seguito all’attacco.
Cade l’allievo ufficiale Mario Cheleschi, studente universitario romano. Poco prima di partire per il fronte scrisse il suo testamento... presago: "Lascio da uomo questa vita, non inquieto, ma sereno".
Ludovico Luraschi di Pola, un volontario di soli diciassette anni arruolatosi in un reparto di pronto impiego dopo aver abbandonato l’accademia navale, muore senza un gemito, sotto i colpi della mitraglia.

Non mi dilungo, potrei citare altri episodi certi, ma non posso riportare quelli che nessuno riporterà; i protagonisti sono morti nella lotta senza che un compagno possa ricordare il valore del soldato italiano in questa tremenda battaglia.
Alla fine della giornata si contano 47 morti e 102 feriti, fu un vero salasso per le truppe italiane.
Di questo primo assalto a Monte Lungo delle truppe Italiane, il Medeghini, ufficiale nel mio Gruppo, scrive: "Vi fu da parte di chi ordinò l’azione una non lieve leggerezza, perché le truppe italiane furono spinte a incunearsi nel dispositivo nemico ancora saldamente tenuto senza che ai loro fianchi si fossero svolte o almeno si stessero svolgendo quelle azioni offensive che erano state preannunciate e che solo avrebbero potuto giustificare una fondata speranza di successo, su un obbiettivo particolarmente difficile quale quello di Monte Lungo.
Senz’altro quell’attacco era stato preparato e condotto con una tecnica da passeggiata, da effettuarsi lungo la linea di massima pendenza, e non si era tenuto conto degli eventuali imprevisti, anche di carattere meteorologico, che avrebbero potuto verificarsi durante lo svolgimento dell’azione".

Un altro testimone, il generale Gabrio Lombardi, scrive: "Il comando italiano, sedotto dalla portata spirituale di un possibile successo, non valutò forse tutte le difficoltà". 
Eppure, nonostante tutto ciò, gli italiani, l'8 dicembre del'43 "Si batterono a Monte Lungo con uno slancio che fece a tutti grande impressione». Così il generale Umberto Utili, che aggiungerà: "Si batterono, per la verità, in funzione di cavie; ossia soli e non sostenuti, lungo una spina di pesce che s'allungava verso il centro dell'arena, e sotto gli sguardi di gente che dall'anfiteatro circostante li osservava curiosamente colle armi al piede. Si capisce che, se fu un onore, non fu un successo. Non era colpa loro. D'altronde non è qui il caso d'indagare come, a provocare il risultato, gli errori politici si siano intrecciati con gli errori tecnici". 

Il 12 dicembre la 6ª compagnia si mosse verso quota senza indicazione di numero che si trovava a settentrione di quota 253. Il suo compito era di accertarsi della consistenza delle truppe nemiche. 
La compagnia lasciatasi alle spalle pochi e stenti alberelli avanzava con tutte le precauzioni in quanto disertori tedeschi avevano riferito che nuclei di granatieri si trovavano appostati in caverna in sommità. Il silenzio era assoluto, non v'erano tracce di sorta che denunciassero un passaggio recente. Nulla. Gli uomini della 6ª compagnia erano ormai giunti alla conclusione che i tedeschi avessero abbandonato il campo allorché da una cavernetta, seminascosta dal pietrame, furono lanciate alcune bombe a mano seguite immediatamente da un nutrito fuoco di armi automatiche. I fanti ebbero appena il tempo di buttarsi a terra, poi dalle loro armi partì qualche tiro di risposta, una misura di contenimento prima di sganciarsi dopo aver individuato le postazioni. In seguito risultò disperso un giovane studente allievo ufficiale. Lo si cercò per quattro giorni non fermando le ricerche neppure a notte fonda. Alla fine venne trovato in uno stato pietoso, infangato, stremato, ferito. Aveva perso sangue in abbondanza, quando scorse i suoi commilitoni gli si illuminarono gli occhi; riuscì a balbettare una frase: "Siete degli angeli". 

Dal giorno 9 molti morti s'erano aggiunti alla lunga lista dei caduti di Monte Lungo
Era destino che fino al giorno 16, data di inizio del secondo attacco alla cima, questa lista si facesse interminabile. Quasi tutti giovani, soldati entusiasti, dilaniati dalle schegge di una bomba a mano o sorpresi da una raffica nemica. Il giorno 14, alcune incursioni aeree di "Stukas" dimostrarono che i tedeschi rimanevano vigili e che non si sarebbero lasciati sorprendere. Quello stesso giorno 14 ci furono altri feriti e morti per le cause più diverse; a sera si contarono sei decessi e ventitré feriti. Più tardi, una pattuglia di bersaglieri al comando del capitano Natale, si scontrò nella zona est di Colle San Giacomo con un gruppo esploratore tedesco. I nemici, vistosi sorpresi, ricorsero al solito trucco. Due o tre di essi avanzarono con le mani alzate in segno di resa mentre altri commilitoni si misero all'agguato, armi in pugno, per abbattere gli italiani non appena questi si fossero fatti avanti allo scoperto per prendere in consegna i prigionieri; gli italiani però, reagirono energicamente, arrivando a catturare quattro uomini. 

Altra tattica dei tedeschi: nascondere sotto i corpi dei caduti una mina collegata a un filo legato al cadavere, appena quest'ultimo veniva rimosso la mina scoppiava in tutta la violenza, dilaniando il cadavere e con esso i soldati avversari che per pietà e per ragioni di sicurezza avevano inteso dargli sepoltura. Più volte nei pressi della strage, verrà ritrovato un cartellino con queste insultanti parole: "I tedeschi si difendono anche dopo morti". 
Una cocciutaggine, quella germanica, che i nostri del Primo Raggruppamento Motorizzato ritrovano anche la mattina del 16 Dicembre. Il giorno 16, infatti, la carta del Monte Lungo fu nuovamente giocata. Tutto incominciò senza preparazione d'artiglieria. All'inizio l'azione viene concertata con i fanti americani, vidi quest'ultimi balzare all'attacco alle 6,15. Alle 9,15 si mossero gli italiani, dopo 45 minuti di preparazione da parte dell'artiglieria. Il primo a scattare in avanti dai posti di combattimento, raggiunti di notte con estrema precauzione a causa di una luna alta e spettrale, fu il 2° battaglione.

L'itinerario era il medesimo che altri italiani avevano percorso il giorno 8 dicembre. 
Un'ora dopo l'attacco quella stessa 6ª compagnia espugnava l'altura con l'appoggio dei ragazzi della 5ª. Invano i difensori avevano dato fondo a tutte le loro risorse sparando con mortai, armi automatiche, cannoncini di piccolo calibro. Poi l'azione si spostò su quota 343. 
Qui, coi fianchi protetti da reparti di bersaglieri, i fanti del 67° conquistarono una dopo l'altra le posizioni nemiche. Anche qui atti di valore: l'Allievo Ufficiale Del Chicca incurante del fuoco nemico si spinge in avanti con la sua squadra, un colpo di mortaio gli scoppia vicino dilaniandogli gli arti inferiori... cadde a terra e coi moncherini sanguinanti... trova la forza di incitare i suoi compagni all'attacco e facendo forza con le braccia si trascina su fino ad incontrare un riparo, ben sapendo che la sua sorte è ormai segnata, spara ancora, ma una raffica lo fa sobbalzare più volte portandogli via l'ultimo soffio di vita su quelle pietre arrossate dal suo sangue. Un suo commilitone Gaetano Mautone, era stato freddato nell'attimo di balzare fuori dalla posizione in cui era in agguato. I compagni lo avevano visto piombare in avanti, raggomitolarsi su se stesso, come un animale ferito questione di attimi, di pochi secondi.. Le truppe incalzano sempre di più ed alle 12,30 su quota 343 di Monte Lungo le bandiere Italiana e Americana hanno cominciato a sventolare unite, per la prima volta nella storia della Seconda Guerra Mondiale. 

La giornata si era conclusa in maniera soddisfacente, le perdite relativamente contenute sia di uomini che in materiali. Le perdite italiane per la conquista di Monte Lungo dall'8 al 16 dicembre 1943 furono 82 morti (di questi 44 allievi ufficiali) e 175 feriti. Non mancarono le malignità di qualche politico, che disse frasi poco corrette nei confronti del generale comandante. Si disse infatti, che se di successo questa volta si poteva parlare era perché il generale Dapino era rimasto nella casetta rossa a leggere libri gialli, senza minimamente occuparsi dell'attacco. Il più contento della riuscita fu, in ogni caso, il mio colonnello Valfrè di Bonzo, quello che noi dell'11° Reggimento Artiglieria chiamavamo "Papà Corrado". 
Dopo la battaglia il generale Gheies invia al generale Dapino un telegramma in cui dice: "La ferrea volontà dei soldati italiani di liberare la patria dal giogo nazista, fino alla vittoria, combattendo su terreno aspro ed impervio può ben esser presa ad esempio da tutti i popoli europei che combattono contro l'oppressione tedesca". 

E qui racconterò un fatto successomi proprio al mattino del 16 dicembre 1943
Alle 8,30 del mattino il mio comandante capitano Franco Salsilli riceve l'ordine di aprire il fuoco su Monte Lungo. Il vice comandante grida: "Ai pezzi - obiettivo Aosta". Tutti i pezzi vengono caricati e orientate le bocche da fuoco nella direzione richiesta i capo pezzo gridano: «Pezzo pronto»... altro grido: "Batteria colpi - 80... - FUOCO". Si ode un frastuono, assieme a noi sparano altre batterie su obiettivi diversi. Sparare elettrizza l'artigliere, e come un centauro quando lo starter abbassa la bandierina e da il via ad una corsa motociclistica. Normalmente l'ordine di far fuoco è di due o quattro colpi, ora invece siamo a 80 colpi, una vera manna. Ad un tratto il 4° pezzo, sotto il mio comando, non spara più. Mi precipito in postazione e che vedo ! un brandello di stoffa che racchiude la carica di polvere che incendiandosi da la spinta al proiettile, anziché bruciarsi alla partenza di quest'ultimo, è rimasta in canna intrappolando il successivo proiettile e non permettendo l'introduzione del bozzolo con le relative polveri da sparo, cannone inservibile con altri 60 colpi da sparare. 

In batteria esiste un arnese chiamato "calcatoio", è un'asta di legno lunga, con all'estremità un cappuccio simile a quello del sacrestano quando in chiesa spegne le candele, questo calcatoio introdotto dalla bocca del cannone permette di spingere il proiettile affinché esca dalla culatta del cannone. Subito prendo il calcatoio e cerco, spingendo, di far uscire il proiettile, ma dopo vari tentativi, effetto negativo. Grido, nel mezzo del continuo frastuono dei tre cannoni della batteria e di tutto il resto del Reggimento: "Datemi la mazza". Gli artiglieri gridano: "No!... fermo... Tenente... se si schiaccia la spoletta saltiamo tutti... allora via tutti, dietro ai ripari, se si salta che sia solo uno". Con tre colpi... tan... tan... tan... ben assestati il proiettile esce con un "Evviva... bravo Tenente". Il cannone è pronto e i 60 colpi vengono sparati con godimento dei miei artiglieri che si ringalluzzivano ad ogni colpo partito. Chi spara è in uno stato molto diverso da chi ne è il bersaglio. Qui c'è spavento, fuga, scompiglio, là c'è movimento, chiacchierio, traffico, allegria. Ora che la ragione ha un pò d'anni in più di quella di allora direbbe: "Tenentino, dopo quello che governo e politici, ti hanno dato a fine guerra, valeva la pena di rischiare tanto, per simili personaggi"? 

Il 24 Dicembre 1943 leviamo le ancore, il fronte si sposta alla periferia di Cassino e noi, per le gravi perdite subite, ci incamminiamo per ritornare ad Airola. Ricordo che il 25 Dicembre, Santo Natale, lo trascorriamo in un casolare semidistrutto in mezzo al fango, quattro stracci sporchi addosso e l'acqua penetrata fino alle midolla, ma in compenso il vitto americano ci offre vino ed un bel pezzo di dolce. L'americano, trasformato adesso in moderno San Martino divide quello che ha con sé e lascia in eredità agli italiani le dotazioni superflue. Si tratta di sigarette, cibarie, scatolame, formaggio giallo, latte condensato o in polvere, o addirittura in zollette da sciogliere in acqua e poi biscotti vitaminici, brodo in cialdini da buttare nella gamella piena d'acqua bollente. Gli stupiti soldati italiani impararono così a distinguere fra razione K, C e D... Le razioni "K": tre scatole un poco più grandi di un'attuale cassetta CD in cui trovi di tutto, servono per i tre pasti giornalieri: cioccolato, sigarette, fiammiferi, una scatola di carne con gelatina, una di brodo in polvere, una di carne di maiale con uovo, una di fagioli e verdure, dei foglietti di carta igienica, sale, pepe, caffè, thè, caramelle, crachers e bruciando l'involucro della scatola, impregnata di cera, con un barattolo, sopra due pietre, puoi avere le vivande calde. 

Il solito pezzo di carne bollita, più gelatina che carne, accompagnato dalla galletta che si sfalda come cartone a contatto con l'acqua ha fatto oramai il suo tempo per il soldato italiano. Questo era il pranzo del soldato americano e italiano, attualmente quest'ultimo, inquadrato con la 5ª Armata. Voglio confrontare detto pasto, con quello del nemico tedesco come riporta il Generale Antonio Ricchezza nel suo libro: «In questi giorni di fine gennaio, il morale delle truppe del Reich varia a seconda dei settori; in qualche caso tali e tante sono le difficoltà che anche i più coraggiosi hanno una crisi di sconforto». Come appare inoltre da queste righe di un diario d'un sottufficiale tedesco, ritrascritte dal Majdalany: «22 gennaio: non ne posso più. Il tambureggiamento dell'artiglieria mi fa ammattire: ho paura, mai ne ho provata tanta come adesso; ho freddo, di giorno non si può lasciare il proprio buco; questi giorni mi hanno distrutto; ho bisogno di appoggiarmi a qualcuno». «25 gennaio: sono pessimista; gli inglesi scrivono sui loro manifestini che tocca a noi o Tunisi o Stalingrado; siamo a metà razione; niente posta; T... ... è prigioniero; presto lo sarò anch' io...». «27 gennaio: siamo mangiati vivi dai pidocchi; non ci facciamo più caso; razioni sempre scarse; tre pagnotte per quindici uomini; niente cibo caldo; dicono che verranno truppe alpine a darci il cambio; mi hanno portato via il sacco della biancheria: ieri una pagnotta per dieci uomini». 

La vera novità per il soldato italiano consiste nel chewing-gum, la gomma da masticare. 
Nel freddo, sotto la pioggia, masticare continuamente quel pezzettino di gomma, che sa da mentolo, rilassa e calma i nervi. Fra quelli che hanno imparato a ruminare con diligenza c'è un piccolo ossuto napoletano Riccò autista di una carretta e sta portando dei rifornimenti di munizioni per i compagni su Monte Lungo. Giunto a pochi chilometri, sul cavalcavia della ferrovia, l'autocarretta di Riccò è fatta segno a colpi nemici. L'autiere pigia sull'acceleratore e cerca di venirne fuori, di raggiungere al più presto il posto avviamento del suo battaglione. Un colpo, più vicino degli altri, copre l'autocarretta con una nuvola di schegge. 
Riccò si ferma di botto, salta a terra. Il pericolo è grave, un secondo tiro e tutte le munizioni salteranno in aria, ma uno sguardo al serbatoio lo fa sobbalzare. Una minuta scheggia ha perforato la lamiera e il carburante fuoriesce imbevendo a poco a poco il terreno: allora Riccò nonostante dentro di sé vorrebbe darsela a gambe, ha un lampo di genio; tira fuori dalla bocca il chewing-gum, lo pressa a forza nel foro tamponando alla meglio, e risale a bordo. 
Poi schizza via a tutta velocità sobbalzando fra le interruzioni, le mani che tremano sul volante, il viso cereo, il cuore che gli martella in petto. 

Ancora qualche decina di metri e poi è fuori dalla visuale, fuori tiro.

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Don Giovanni Bonomi

Don Giovanni Bonomi era il cappellano dell' 11° Reggimento Artiglieria, nella vita professore alle Scuole Superiori in Alba, mio carissimo amico per i continui contatti che avevo con questo insigne personaggio. Don Giovanni scrisse parecchi libri sulla Guerra di Liberazione
e per onorare il suo ricordo traggo alcuni brani dal libro "Dal Volturno al Po" in merito alla battaglia di Monte Lungo, lui l'aveva vissuta più da vicino del sottoscritto assieme ai fanti e bersaglieri.

Dal suo libro traggo questo racconto: "Alle tre del mattino il mio attendente fece capolino nella tenda. Vuol celebrare la S. Messa? Balzai dalla brandina e sistemai l'altarino dietro una roccia. Sapevo che nessuno avrebbe assistito: non era possibile. Celebrai ugualmente e seppi poi che i più vicini stavano in ginocchio nel buio. Non faceva eccessivamente freddo e l'aria era tranquilla. Gli artiglieri stavano pronti ai loro pezzi e i fanti vegliavano nelle trincee. Regnava il silenzio del mattino di festa,
ma per chi sapeva, l'impressione era di un pericoloso vulcano pronto ad una spaventosa eruzione. 

Alle cinque e trenta precise il mostro si sveglia, si scuote e vomita una valanga di fuoco. Centinaia di cannoni riempiono la valle del loro rombo. Il terremoto è scatenato e vampate senza posa squarciano l'oscurità del crepuscolo mattutino.
La mia tenda vola; tra i soldati corre un brivido. Lo spettacolo è dei più grandiosi; Monte Lungo si trasforma letteralmente in un braciere fumante, l'atmosfera si arroventa.
Mi precipito al posto assegnatomi, all'incrocio di più mulattiere, il più idoneo per il mio servizio.
Quasi due ore di terrore e di convulsione. Gli uomini si buttano a terra, si raggomitolano, si turano le orecchie; gli alberi piegano le fronde e oscillano; le erbe strisciano al suolo; il vento fa mulinello e giostra sibilando tra le migliaia di proiettili che lo fendono e lo squarciano; tutta la valle sobbalza, freme. Sembra la fine del mondo, l'ora della biblica profezia.

L'improvviso simultaneo silenzio dei cannoni segna l'ora della fanteria e dei bersaglieri. In due direzioni diverse i prodi prendono d'assalto l'obiettivo.
Ormai non si sentono che schianti di mortai, crepitare di mitragliatrici, scoppi di bombe a mano, colpi di fucile. L'animo di tutti è proteso verso le impervie rocce e lo spirito vive con ansia struggente il dramma che si svolge. "Quota... conquistata" gridano i telefoni di collegamento e le radio delle pattuglie di punta; "altra quota conquistata"; gli occhi si inumidiscono di commozione, le mani si stringono convulse, il cuore sembra balzare in gola: è forse giunta l'ora della rivincita e della riabilitazione?
Osservavo dal mio posto, un pò rialzato, il movimento, incurante del pericolo. Non potevo accompagnare i singoli scaglioni, dovendo rimanere per forza lì a quell'incrocio, il più adatto al bisogno.
Li vidi scattare dalle trincee compatti, serrati, in due direzioni.
Li seguivo con l'occhio attaccare il roccione, salire, ridiscendere, riprendere la salita. Apparivano e scomparivano tra sporgenze, insenature, groppe e valloncelli a squadre, a gruppi isolati; si inerpicavano ritti, curvi, a passo lento, a scatti, a corsa, secondo le necessità: si univano,
si disgiungevano, si fermavano, si nascondevano, riprendevano sempre progredendo, sempre occupando terreno. Scoppi di granata a destra, a sinistra, di fronte li disperdevano, li rimpicciolivano. Ondate di fumo, tempeste, di sassi, si elevavano ondulando, trapuntavano il terreno; ma i prodi non cedevano, non si arrestavano.

Dal mio osservatorio scorgevo i colpi in arrivo da tutte le direzioni. Volavano sopra di me fischiando, e mi cadevano alle spalle, raggiungendo i fianchi del mio rialzo, si infrangevano
sulla strada, sulle mulattiere, nei campi. Ma ero troppo occupato a seguire le vicende e i movimenti di quei figlioli per badarvi. Il tempo ci tradì. Ad un'alba limpida e trasparente subentra
una nebbia densa e fitta che, scomparendo improvvisamente, lasciò scoperti i nostri inoltratisi profondamente.
Il nemico ebbe buon gioco, ogni colpo che scoppiava in mezzo a loro era un tonfo al mio cuore. Avrei desiderato essere tutto con tutti. Immaginavo quanti feriti, quanti... agonizzanti... e... fremevo, m'agitavo. Li perdetti dopo un'ora dietro una gibbosità. Il telefonista annunciò: "Stanno per raggiungere l'ultima quota" un sussulto... che sia la vittoria?
Balzati, non visti, dai loro nascondigli, i tedeschi contrattaccarono con sorpresa di fronte, di fianco ed alle spalle, tentando un accerchiamento.

Ne venne un duello furente, una mischia corpo a corpo, una lotta selvaggia. I prodi fanti si dibatterono nella stretta con sovrumano accanimento e con coraggio leonino. I mortai nemici, battendo con furore le zone retrostanti, non permisero l'accesso dei rinforzi; l'artiglieria nostra taceva avendo perso i collegamenti. Tutte le linee telefoniche erano spezzate. Il nemico favorito dal tempo e dalla posizione strategica, dal terreno cavernoso e roccioso, ebbe ragione. 
Fu gioco forza ripiegare sulle posizioni di partenza.
Lo spettacolo desolante di soldati che precipitano in disordine, sbandati, giù per le balze, di feriti che gridavano, di morti che venivano dai compagni trascinati non lo dimenticherò mai.
Chi urlava, chi piangeva, chi chiamava soccorso.
Mi precipitai verso le quote "Padre, ci aiuti", mi si invoca da una parte "Padre, corra su, i miei compagni stanno dietro a quella roccia", mi si grida dall'altra.
Sudato, insanguinato, stordito, correvo da un punto all'altro, da una roccia all'altra, aiutando, sollevando, cercando di trascinare quanti mi fosse possibile al riparo.

Ma come fare, come arrivare ovunque e a tutti?
Un bersagliere, allievo ufficiale, ferito, chiamava disperatamente per nome i suoi compagni rimasti feriti o morti sul luogo della mischia.
Con voce soffocata implorava che li portassi giù. Lui stesso tentò di rifare la via.
L'intervento della nostra artiglieria per impedire al nemico di avvantaggiarsi non ci permise di raggiungere l'estremo limite. Ci ritraemmo portando con noi quanti potemmo.
I portaferiti fecero miracoli. Alla sezione di sanità la lunga teoria delle barelle accrebbe
la sensazione della gravità delle perdite.
All'appello più di centoventi non risposero".

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Un patto doloroso

Tratto sempre dal racconto di Don Giovanni Bonomi.
Tra i caduti c’era anche Dino. Mi sanguina il cuore parlare di lui e si rinnova intenso e straziante il dolore di quella mattina. Ma non voglio tacere convinto di compiere un dovere verso di lui e un bene verso la gioventù.
Il suo esempio sarà di monito e di sprone.
Ho presente come fosse ieri. Era appena cessato un intenso fuoco di artiglieria e regnava un silenzio dolce e sereno. Si poteva credere d'essere in tempi e luoghi normali se qualche colpo di cannone lontano non avesse indicato la continuità della guerra. L’aria era chiara e l’ultimo sole della giornata arrossava la cima nevosa di Monte Cairo sopra Cassino. Me ne stavo sdraiato sulla brandina nella mia tenda gustando la quiete così nuova e penetrante.
"Padre, posso?"..., chiese alzando il lembo della tenda. Lo riconobbi perché l’avevo visto altre volte. Era alto, biondo, dagli occhi chiari e dal viso quasi imberbe. Aveva 23 anni, faceva il terzo anno di medicina e portava sul bavero il nastrino di allievo ufficiale. L’aspetto era quello di un fanciullo, sempre sorridente ed elastico come una molla.
"Vieni. Cosa c’è di nuovo"?
"Vorrei confessarmi".
"Bravo, domani è l’Immacolata... ma non potrai sentire la S. Messa".
"Lo so... C’è l’attacco questa notte vero?".
"Hai paura?".
Arrossi un poco e con sincerità: "No, non ho paura, ma non si sa mai... Voglio regolare le partite con Dio".
Si confessò ed alzatosi: "Posso dirle una cosa?... Se morissi... Vada lei personalmente dalla mia mamma".
"Oh, che malinconia! interruppi ridendo. Vuoi fare testamento "?
"Sento qualche cosa..., darà lei la notizia, me lo promette"?
"E se morissi io"?
"Lei non morirà e se dovesse avvenire andrò io a casa sua".
Il patto era stipulato. Mentre usciva si voltò di scatto:..."Un’altra cosa: ho anche la ragazza..., arrossì di nuovo vede", frugò nel portafoglio, e mi mostrò la fotografia.
"È buona e prega sempre. Se cadessi le scriva che l’ho sempre amata"!
Scappò via e prima ancora che gli potessi gridare "Attento alle mine", era già scomparso dietro al roccione.
Si trovò nelle spire della battaglia violenta e sanguinosa.

Con i suoi compagni bersaglieri fu tra i primi a scattare e a muovere all’assalto. Lo scorsi avanzare mentre stavo a ridosso di un sasso, pronto ad ogni chiamata. Triste, guardavo il cielo che si schiariva preannunciando una giornata bella e pensavo al contrasto tra il mistero del giorno, la festa dei nostri paesi e l’orrore del luogo. Le mitraglie sgranavano senza posa e i mortai laceravano l’aria con i loro sibili.
Udii alcuni schianti a cento metri e qualche grido.
"Padre corra" mi urlarono. Strisciando sul terreno sassoso e ingombro di aridi sterpi giunsi sul posto.
Tre corpi caldi, esanimi, giacevano dilaniati, altri due vivi gemevano. Feci d’urgenza il necessario ai caduti e sollevai i feriti. Fortunatamente non erano gravi e da soli si trascinarono al luogo di medicazione.
"Più avanti, dietro, c’è Dino... mi disse uno, temo...".
Non lo lasciai finire. Girai la roccia e con un balzo fui sul picco.
Lo vidi in una cunetta con la fronte contro terra immobile.
Lo chiamai, lo sollevai, lo guardai in faccia. Aveva uno squarcio sulla fronte. Respirava ancora. Lo chiamai di nuovo, gli pulii col fazzoletto la faccia coperta di sangue.
Aprì gli occhi, li girò, li fermo fissi su di me e tentò di sorridermi. Lo trascinai nel modo più delicato possibile al vicino posto di medicazione. Mentre il medico lo fasciava: "Padre" mormorò con un fil di voce "dica... alla... mamma" parlava a stenti e a sbalzi... silenzio... ad un tratto dal movimento delle sue labbra mi parve d’interpretare la parola "ma... m... ma", si contrasse..., spalanco gli occhi... li chiuse... piegò la testa da un lato e di sotto alle palpebre apparvero... due lacrime. A poche centinaia di metri la battaglia continuava ad infuriare feroce e sanguinosa".
Al pomeriggio, col cuore spezzato seguii la barella che lo portava, al piccolo cimitero militare poco discosto.
Lo ricomposi così senza cassa nella fossa e lo baciai in silenzio, pensando alla sua mamma tanto lontana".

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Ritorno ad Airola

26 Dicembre 1943, ritorniamo ad Airola, si riordina il tutto per un eventuale ritorno al fronte.
Airola, paese di riposo dopo la battaglia; un giorno, passeggiando per la via principale con un mio amico, questi, incontrando un Tenente, dopo i convenevoli mi dice:"Gianni ti presento il Tenente Silvestro Agnelli, il nuovo vice comandate della tua batteria".

Qui comincia la storia tra me e questo signore.
La nostra batteria era formata dal Comandante Capitano Franco Salsilli, veneziano, da Silvestro Agnelli, Vice comandante, da Lodi, e da due SottoTenenti: il sottoscritto Gianni Moro, trevigiano e Franco Arvat, torinese.
Batteria con l’appellativo... Fagotti, come sopra descritto. Con il nostro Gruppo c’erano altri due SottoTenenti: Ezio Tosi, triestino e Fermo Rizzi, modenese, detto "il buono", che si unirono in questo eterogeneo gruppo con solidale amicizia.

Conosco ad Airola una ragazza, Concettina, sfollata da Napoli e alla sera cominciamo a frequentarci, facciamo delle lunghe passeggiate al chiaro di luna, con dei romantici sollazzi ed immaginabili altre cose.

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Bianco fiore

Attraverso il mio attendente conosco la famiglia De Marco, composta da madre, due figli di 10 e 12 anni e da una bella ragazza, la diciassettenne Olga. Il capo famiglia è morto in America e così la vedova ed i figli ritornano in Italia, a Napoli, ed ora sono sfollati ad Airola.
Sapendo bene l’inglese, in casa De Marco ogni tanto veniva qualche soldato americano con cibarie varie per aiutare questa famiglia.
Non potendo avere viveri a mia disposizione ogni tanto donavo qualche soldo ai due ragazzini perché si comperassero i dolcetti, ma credo che portassero a casa, a sua madre, altre cose più necessarie dei dolci.
Senza nessuna malizia mi trattenevo con Olga in lunghe chiacchierate, capivo che la ragazza era di una grande ingenuità. Lei vedeva in me un personaggio interessante, un ufficiale, distinto nei portamenti e nel linguaggio, non parlavo mai d’amore, alle volte, le accarezzavo il volto, sussurandole: "Come sei bella".

Un giorno la madre la prega di andare da un suo conoscente che abita a circa due chilometri da Airola. Chiesi se potevo accompagnarla e la madre diede il suo consenso.
C’incamminammo per una via lunga e ombrata parlando di cose varie. Ad un tratto il sole, essendo al tramonto, illuminò di un rosso infuocato una serie di nuvole; mettendogli un braccio attorno ad un fianco le dissi: "Guarda Olga che stupendo tramonto", lei appoggiò la testa sulla mia spalla... istintivamente la girai verso di me e dolcemente le diedi un lungo bacio. Rimase impietrita... mi guardò quasi impaurita ed abbassando la testa si mise a piangere sommessamente.
La tenni a me abbracciata e quando, dopo un pò si rinfranco, le chiesi: "Perché hai pianto?" sollevando il capo mi sussurrò: "Non ho mai baciato un ragazzo".

Questo è puro amore, pensai, e me ne dolsi, perché ero sicuro che qualche giorno dopo sarebbe venuta la mia partenza ed allora avevo turbato inutilmente un giovane... bianco fiore. La madre, al ritorno si accorse del turbamento della figlia e qualche giorno dopo mi disse: "So che tra lei e mia figlia corre qualcosa di amoroso, però siamo in periodi molto difficili, non precipitiamo, siete entrambi giovani lasciate passare queste giornate tragiche e guardatevi da amici". Ma se con Olga vi era l’amore puro contornato da un bianco fiore, il mio attendente, Cesare Pini, sovente mi presentava fanciulle desiderose di vita e di sollazzi e se qualcuna accettava l’invito di venire nel mio appartamento, le offrivo il mio "forte caffè" e l’ospite era entusiasta della paradisiaca "bevanda".

Il 3 Febbraio 1944 arrivò l’ordine di partire per il fronte; mi feci accompagnare dal motociclista Barigozzi Getturo, ferrarese, ed andai a salutare per l’ultima volta Olga, mi diede una sua foto ed il suo indirizzo, l’abbracciai e via di corsa, la vidi agitare lungamente la mano in segno di saluto fino alla curva e poi sparì... per sempre.

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Acquafondata

Il 23 gennaio viene rimosso il generale Dapino e subentra il generale Umberto Utili, uomo con una personalità spiccata, ferma, perspicace, diverrà l'idolo dei soldati.
Nell'assumere il comando invia un messaggio alle truppe: 

"Valorosi veterani del 1° Raggruppamento. Sono fiero di essere stato destinato a comandarvi. Nell'ora più amara e più difficile, quella dello smarrimento e dello sconforto, voi avete dato l'esempio generoso dell'azione ed avete versato il vostro sangue, che è sempre qualcosa di più prezioso delle chiacchiere, nella santa riscossa contro i germanici. Onore ai vostri Caduti, onore ai vostri feriti, ma onore anche al più umile di voi ragazzi, in piedi perché questa è l'aurora di un giorno migliore".

Con l'entrata del generale Umberto Utili cessa il 1° Raggruppamento Motorizzato Italiano e nasce il C.I.L. Corpo Italiano di Liberazione, forte di 25.000 uomini.
Il 4 febbraio 1944 la mia Batteria va in aiuto al fuoco delle batterie francesi ad Acquafondata, in provincia di Frosinone, a 10 chilometri ad est di Cassino.

Arrivo ad Aquafondata verso la sera del 5 con il terreno tutto bianco per una abbondante nevicata. Il paese è semi distrutto, prima dai bombardamenti americani e poi dalle cannonate dei tedeschi, paesino posto sopra un cucuzzolo un pò più piccolo di Asolo. Con un artigliere cerco di raggiungere una casetta posta un centinaio di metri dalla strada, su per la montagna. Raggiunta la casa constato che vari colpi d'artiglieria hanno demolito la cucina e parte della stalla ove troviamo due vecchietti, marito e moglie, un asino ed una pecora (mancava il Bambin Gesù) un'altra pecora morta giaceva in un angolo colpita da una scheggia di granata, in altre due stanze bivaccavano soldati francesi e marocchini.

Dico all'artigliere Gervasini Carlo, varesino: "Non resto qui a dormire nella stalla, mezzo dentro e mezzo fuori, col pericolo che un marocchino mi faccia la pelle per fregarmi le scarpe". Non era una balla, casi di questo genere erano successi a Bari compiuti da questi personaggi oltre ad altri che è meglio non ricordare.
Ritorno in uno spiazzo pianeggiante, dove avevo sistemato i cannoni con i trattori ed automezzi; non trovando di meglio prendo una coperta e mi sistemo su un autocarro pieno di munizioni, protetto dal telone, almeno se nevica sono al coperto. è notte, ed i soldati sono ormai abituati a simili situazioni e non aspettano nessun comando dal superiore, ma ognuno cerca il posto più adatto ed accessibile, consapevole di questo cerco di addormentarmi sopra le cassette delle granate.

Dopo un pò una serie di scoppi a circa cento metri dal mio giaciglio interrompono il mio primo sonno; alzo il telo posteriore dell'autocarro e vedo alte fiammate a cavallo della strada che porta al paese.
Mentre osservo il bagliore degli scoppi sento un tonfo cupo e poi un soffio. Non mi curo di ciò, quando sento che Cesana Luigi, bergamasco, tutto agitato mi chiama: "Tenente è caduta dietro il suo camion". Vado fuori e non vedo niente di anormale, anche perché è buio... "Ma non vede niente" continua... e sempre più convinto: "Guardi, Tenente, il cratere di terra nera e attorno c'è la neve caduta oggi". Cesana aveva ragione, la granata cadendo non era scoppiata, aveva continuato la sua corsa e quando era a uno o due metri sotto il suolo era scoppiata formando un cratere di un metro circa di diametro coi bordi neri del terriccio portato in superficie.
Dissi... "Cesana, cinque metri più corta e per noi due guerra finita". Lui di rimando: "Tocca i ball Tenente» ci mettemmo a ridere.

Al mattino si doveva portare tutta la batteria, vicino al Passo di Serre, a circa cinque chilometri da Acquafondata,in quel settore operavano i francesi e questi avevano bisogno di un'artiglieria che potesse battere i punti morti dei loro cannoni, i nostri obici 100/22 erano adatti per questo avendo il tiro a parabola. Ma i nostri trattori avevano il battistrada delle coperture adatto per la sabbia del deserto (erano in Sicilia pronti per imbarcarsi per la Libia ma non fecero in tempo ad andarci per lo sbarco americano nell'isola).
Il capitano cerca con del ferro di attorcigliare le ruote per far presa sul terreno, ma dopo alcuni metri di marcia, tutto si disintegra con un mare di «moccoli» da parte di tutti.
Il giorno dopo 5 "Treassi" americani, in dotazione ai francesi, trainano i nostri 4 cannoni e le munizioni su per la montagna in un posto adatto solo per i lupi.
Mettiamo i cannoni dietro una collinetta, più lontano le cassette delle granate, le tende sparse sul lato sud, inoltre utilizziamo delle buche fatte dalle fanterie durante l'avanzata, e sul lato sinistro della batteria costruiamo una latrina.

Trascorriamo una decina di giorni bevendo del buon cognac, per scacciare il freddo, sparando in abbondanza.
Appassionato di caccia, un giorno, Nardi Noè da Lonigo mi fece notare che aveva visto qualche tordo sugli alberi sparsi attorno alla batteria.
Il mattino seguente appostato dietro un albero, col moschetto, aspetto l'arrivo dei volatili e qualche tordo cade, preda che poi regalo ai miei artiglieri.
Sul finire della nostra missione un pomeriggio mentre stiamo sparando su un bersaglio tedesco, una salva di cannonate arriva attorno alla batteria.
Il Tenente Agnelli aveva comandato: "Batteria colpi quattro"... ma l'arrivo della salva tedesca aveva fatto correre gli artiglieri nei ricoveri.
Al quarto pezzo c'ero io ed il capo pezzo, Prospero Aguzzoli, da Reggio Emilia che tentava di andarsene come i suoi compagni... "Fermo" gridai "prendi la granata e carica"... "Ma sparano Tenente"... "Muoviti carica" gridai; pronto l'Aguzzoli caricò il cannone ed assieme sparammo i 4 colpi. Come per incanto il nemico tace, forse i nostri colpi hanno prodotto un danno?... oppure il compito nemico era finito?... non si saprà mai!
Però per tutto il rimanente periodo che fummo in quella postazione il nemico non si fece più vivo.
Fatto curioso, le granate tedesche erano esplose un pò da per tutto, qualcuna in mezzo alla linea pezzi, senza danno alcuno, ma l'unico obiettivo militare colpito era... la latrina!... con uno spargimento di "me... rendina..." per un raggio di cinquanta metri.
Dopo 10 giorni la fanteria francese, con i marocchini, si muove e conquista delle postazioni nemiche, il nostro compito finisce, e viene dato l'ordine di "Allestire per la marcia" e così abbandoniamo la postazione. Verso le quattro del mattino arrivano due Treassi, guidati da francesi, per trainare i primi due cannoni e portare il tutto sul piano a disposizione di nuovi ordini.
La prima spedizione viene affidata, come al solito, al sottoscritto; salgo sul primo autocarro e piano piano mi avvio su una strada stretta e pericolosa.
Ad un certo punto trovo altri due Treassi che mi sbarrano la strada. Uno era scivolato, con le tre ruote destre, fuori della carreggiata e non si fidava a proseguire, era sopra uno strapiombo di circa 150 metri. Il secondo autocarro oltrepassa quello inclinato e lo aggancia con la corda di traino in dotazione. Tutto è pronto, i due autocarri ingranano la marcia, quello inclinato, al muoversi, s'inclina sempre di più e ad un tratto precipita giù rotolando su se stesso tre volte, fermandosi in posizione perpendicolare alla strada trattenuto dalla corda di traino dell'altro automezzo.

Siamo tutti col fiato sospeso, cosa è successo all'autista entro l'automezzo dopo tutte quelle piroette? I compagni chiamano: "Antoine, Antoine, reponde Antoine!" nulla, Antoine non risponde... chiamano ancora e dopo circa due minuti sentiamo una voce rauca: "Tout va tres bien". Il povero autista con le piroette aveva momentaneamente perso i sensi ma nessun altro danno. Mi fanno passare e così arrivo al levar del sole sul piano dove un gruppo di soldati francesi mi offrono dell'ottimo caffè.

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Scapoli

Nel frattempo il Comando e l'intero Primo Raggruppamento Motorizzato viene trasferito a Sant'Agata dei Goti, una cittadina medievale in cui la popolazione ormai si era rassegnata al transito in tutte le direzioni dei più svariati convogli e dei soldati più diversi, compresi i nostri, e nel vedere i badogliani, dallo scudetto sabaudo cucito sul petto, non stette nemmeno a guardare di che nazionalità fossero. 

Lo stesso generale Utili s'era accorto che qualcosa non andava per il verso giusto, la campagna antimonarchica sembrava appuntarsi in particolar modo contro il piccolo scudetto che portavano i soldati del Primo Motorizzato apostrofati, di frequente, con il termine evidentemente in senso spregiativo di badogliani. Penso: "Siamo qui per dar una mano a questa decrepita Italia, possiamo rimetterci la pelle e questi ti prendono per il fondello". La mia batteria entra ancora in linea e si sistema in Scapoli sulla destra del paese. 

Scapoli, una cittadina sorta sulle rovine di Seticola, di cui si hanno notizie certe intorno al quarto secolo avanti Cristo. Tipico paesello del Molise, per il breve tempo che vi rimaniamo è luogo caratteristico; quando per qualche ragione si fa una capatina a Napoli o a Benevento e si dice di essere a Scapoli, constatiamo che non sanno dove sia questo paese. Scapoli sorge su di un greppo a 800 metri circa, vicino a Castelnuovo. Guardandolo dalla valle sembra un blocco grigio-ferro. Le case addossate, sovrapposte e accavallate; le strade strette e tortuose, la planimetria irregolare, a caso. Paese di capre e tuguri rudimentali.

All'ingresso dell'abitato sta, un pò discosta, la chiesa parrocchiale con le stigmate della guerra; quasi all'estremità opposta sorge l'antico castello del signorotto. Il panorama è superbo; a mezzogiorno la vista si perde nella vallata del Volturno, giù sino a Venafro. Sullo sfondo distinto, isolato, si taglia il massiccio del Matese, dalle cime nevose e scintillanti ai raggi del tramonto. La coltivazione è ad oliveti, prati, boschi, interrotti da rocce calcaree e da enormi macigni. 

La terra è povera e gli abitanti vivono di quel poco che con dura fatica riescono a strapparle. Le comodità anche in tempi normali sono limitatissime. Al nostro arrivo le uniche persone che vi troviamo sono il parroco e qualche sperduto, miracolosamente sfuggito alla deportazione tedesca. Passando dopo molti anni per Scapoli, assieme a Salsilli, Agnelli, Tosati, Rizzi sapemmo che dopo la caduta di Cassino gruppi di donne e di uomini fecero ritorno dai paesi dove li avevano confinati i tedeschi. 

Entrando in paese e vedendo la chiesa sinistrata si buttarono in ginocchio sul sagrato, baciarono i gradini, si segnarono piangendo. Con occhi pieni di lacrime contemplarono l'abside scoperchiata, alzarono le mani invocando, e con lamenti, si appoggiarono alle pareti singhiozzando. E davanti alle loro case? Le scoperte che man mano fecero, gli orrori, delle devastazioni vennero commentati con alte grida e veementi imprecazioni, la faccia, i gesti, i movimenti erano da folli. 

Quando pure non successe il contrario: ammutoliti dallo sconforto, osservavano inebetiti e come statue pietrificate, di tanta desolazione. Molti non ressero e preferirono prendere la via dei campi o addirittura quella del volontario esilio. Simili casi si sono ripetuti in centinaia di paesi della nostra lacerata penisola. 

Il Maggiore Vitello, comandante il Gruppo, si sistema in una piazzetta su modesta casa con ariosa balconata, che si apre sulla vallata. Per mettere in batteria i 4 pezzi dobbiamo abbattere dei vecchi alberi che ci impediscono il tiro, le granate alla partenza avrebbero toccato i rami con conseguente scoppio davanti a noi. Appena pronta la batteria l'ufficiale osservatore ci fa sparare alcuni colpi al di là di una altura dove erano sistemate alcune nostre truppe alpine. Tutto questo per creare una linea di sbarramento per un eventuale assalto del nemico. 

Sparato il primo colpo, l'ufficiale dall' osservatorio ci comunica: "Sento il colpo ma non vedo dove sia caduta la granata, forse sul lontano bosco, diminuite il tiro". Diamo la diminuzione dell'alzo e facciamo partire un altro colpo; dal telefono l'ufficiale grida: "sospendete il fuoco... avete sparato sotto l'altura, tra le tende, in mezzo ai soldati, non so cosa sia successo, sento grida da tutte le parti... spero che non ci siamo morti o feriti". 

Il capitano Franco Salsilli controlla tutti i dati: l'altezza del monte, l'altezza della traiettoria della granata quando possa sopra il monte; tutto quadra, ma il volpone di Salsilli prende il goniometro e fa la differenza tra la quota da dove spariamo e la quota effettiva della vetta del monte dove son appostati gli alpini, si accorge che la carta topografica riporta un errore di meno 56 metri. I nostri colpi cadevano al centro di questo errore. Telefonate dal Comando Gruppo... tutti sono in agitazione, constatato l'errore si cerca cosa sia successo sul monte; un nostro ufficiale, dopo un'ora di marcia, va a constatare i danni, senza accennare agli alpini cannoneggiati che è del Gruppo che ha sparato sul monte. 

La fortuna volle che i soldati, per prendere il sole erano un pò più in alto delle tende, quasi sulla punta dell'altura. Solo qualche gavetta forata e qualche tenda abbattuta.

Un giorno il maggiore mi manda al Comando a prelevare due generose "signorite" per portarle in batteria a soddisfare gli arrapati artiglieri. Prendo l'autocarro, un Fiat 26, autista Otello Buchi, da Colle Val d'Elsa, e dopo una diecina di chilometri ho il piacere di conoscere "le due verginelle". 

Una bolognese e l'altra genovese, portate in batteria sotto una tenda, subito incominciano il loro lavoro. Dopo alcuni giorni parlo con il capitano su litigi successi tra i soldati per via delle "sènioritas". Questi riferisce il tutto al Maggiore Vitello e lo prega di rispedire alla base la "merce".

Cosi, dopo una settimana, altro ordine al Tenente Moro: far sloggiare le due pulzelle. Durante il viaggio faccio notare alla bolognese il lavoro pesante fatto, in tutto il periodo che è stata in batteria e lei di rimando: "Caro Tenente, queste sono state caramelle per me, figurati che in Libia, sotto una tenda, dove il sole ti opprimeva dalle sei del mattino fino al tramonto, mi son fatta anche 125 soldati in un giorno". 

Scherzando dissi: "Certamente il tuo...buso è più grande della bocca del mio cannone", ridemmo entrambi. Dopo una diecina di giorni ci spostiamo più ad ovest lungo la strada che da Scapoli va a Cerasuolo ad un chilometro più a nord di quest'ultimo paese. 
Appena arrivato sto scaricando il mio cassone contenente il vestiario, quando una serie di granate scoppia tutt'intorno alla batteria. 
Fuga generale, mi ricovero entro una buca precedentemente scavata dai tedeschi. Dopo un pò tutto tace e come quando si esce da casa dopo un temporale, vado a constatare i danni subiti. Una scheggia era entrata nel cassone posto sopra la buca ove mi ero riparato; apertolo constato che una coperta è stata bucata in più parti. Dico ad Agnelli: "Meglio una serie di buchi sulla coperta che uno sul mio corpo". 

Anche la batteria ha dei lievi danni, i pezzi nemmeno una scalfittura. Mettiamo in batteria i 4 pezzi a sud della strada, più a sud della batteria le due mitragliatrici, a nord della strada, sul lato sinistro i trattori con avantreni porta munizioni, sempre a nord della stessa sul lato destro la tenda degli ufficiali, in alto a circa 150 metri dalla batteria la tenda del Capitano con due artiglieri; i soldati, circa una sessantina, sparsi a destra e sinistra della batteria possibilmente defilati dal tiro nemico. Dopo questa scaramuccia dei tedeschi, per i giorni che seguono, non sono capace di vedere il mio attendente Pini Cesare. Chiedo informazioni a Margini Savino, da Reggio Emilia, attendente del capitano, e vengo a sapere che sul rovescio della montagna, il Pini, ha praticato sul terreno inclinato un buco orizzontale profondo, dove si è sistemato e non esce nè di giorno ne di notte. Quando va a prendersi il rancio, lo vedono sempre di corsa con la testa rivolta verso il probabile arrivo di una granata. Una notte, per poco non resta ucciso; la buca ove alloggia frana per metà, per fortuna lui dormiva con la testa vicino all'apertura. 

Vado a trovarlo e trovo un uomo impaurito, completamente trasformato da quello di Airola; mi esorta alla prudenza, sa che il pericolo non mi spaventa e lui soffre per questo; lui sempre allegro che mi considerava, non un superiore ma un fratello, pronto ad ogni mio desiderio. Le cannonate del primo giorno avevano distrutto un uomo pieno di vita e d'allegria. Parlo con il capitano e lo prego per il suo trasferimento alla base del Gruppo, lontana circa dieci chilometri dalla batteria, almeno là sarà utile a fare qualche servizio. Il giorno dopo parte raccomandandomi ancora la prudenza. 

Non l'ho più visto, alla liberazione di Firenze, chiese il congedo... Ebbi un contatto epistolare parecchi anni dopo, seppi che era poliziotto nella Celere a servizio della "Buon Costume". 
La paura delle granate non gli avevano fatto perdere il vizio. Durante il periodo trascorso in questa postazione andavo a far delle passeggiate sulle colline vicine dove c'erano stati dei combattimenti tra tedeschi e fanti americani, località monte Monna Casale. Un giorno, inoltrandomi su un sentiero a mezza costa, tra gli arbusti di una siepe vedo un corpo di un tedesco raggomitolato su se stesso, morto da parecchi giorni con a terra sparsi tutti gli occorrenti per farsi la barba. 

Una granata l'aveva colto in pieno e teneva in mano ancora il pennello per farsi l'insaponata. Non lo tocco memore delle mine che i tedeschi mettevano sotto i morti. Ma credo che per questo non avevano avuto il tempo; più avanti trovo, appena giù dal sentiero, un'altro corpo con la testa fasciata, per una ferita, sopra una barella eventualmente gettata dai due portatori del ferito che bersagliati dalle granate americane avevano abbandonato il compagno, probabilmente morto, ed erano fuggiti.

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Monte Marrone

Davanti a noi c'è Monte Marrone, alto 1805 metri. I tedeschi più volte si sono visti sopra il monte. La notte del 31 Marzo 1944, alle 3.30, gli alpini divisi, in due colonne, vanno alla conquista dell'alta montagna. L'impresa non è facile, oltre alla probabilità degli agguati nemici, il terreno presenta infinite difficoltà. La boscaglia della base si spegneva a meno di mezza costa in arbusti dai quali si staccavano guglie irte altissime, nè strade, nè mulattiere, nè sentieri facilitano la scalata, ci si deve muovere nei canaloni, inerpicandosi fra rocce, aggrapparsi a sassi, superare... grane... tutta la notte dura l'impresa. 

La nostra artiglieria batte incessantemente oltre le creste sul versante opposto, con lo scopo di tenere in scacco il nemico, il quale sembra assente. Sulla parete che guarda Val di Mezzo regna il silenzio della sorpresa. I bravi alpini muti salgono e progrediscono lentamente. Non si sente che il greve respiro degli scalatori e qualche leggero sibilo di richiamo e per l'orientamento. Gli ordini dati sono precisi e le consegne inequivocabili. Con il mitra spianato, con gli occhi spalancati nel buio, con le orecchie tese ad ogni rumore, i soldati della montagna arrancano, guardano nel buio le sommità, sognano le vette. 

Qualche breve istante di sosta ogni tanto per riprendere fiato, qualche laconica trasmissione degli ufficiali, e niente di più. Si guadagna faticosamente terreno, sempre più lontano dal fondo valle, sempre più verso le vette. Si devono affrontare passaggi di secondo grado, prevalentemente ghiacciati e con il fardello al completo dell'equipaggiamento. 
Le prime pattuglie raggiungono una vetta, si spingono a destra ed a sinistra, silenzio più assoluto. Altre vette vengono raggiunte ma, con grande sorpresa, dei tedeschi non vi è traccia. Hanno abbandonato le posizioni evidentemente certi di non poterle tenere a lungo. Buon per noi, che dopo tanti sforzi, ma senza vittime conquistiamo il monte. 

Il 5 aprile il Comandante dell' 11° Reggimento Artiglieria, colonnello Valprè di Bonzo viene rimosso, subentra il colonnello Mario Brunelli; il primo, forse rimosso, per aver troppo venerato il suo re. Nel frattempo entrano in azione altri reparti italiani; si tratta del battaglione Bafile, i "Marines italiani" del battaglione dei paracadutisti della Nembo e gli arditi del colonnello Boschetti inquadrati nel C.I.L. quest'ultimi hanno la denominazione di IX Reparto d'Assalto.

Il Boschetti era uno di quei tipi che, stando almeno alle parole del cappellano degli arditi, di normale non aveva proprio nulla. Con il volto perennemente accigliato, baffi e capelli corvini, la pelle olivastra, aveva avuto un'idea non troppo brillante, quella di farsi crescere un pizzetto. Fra la divisa e il pizzetto rischiava di ricavare l'idea di un combattente per lo meno stralunato, forse voleva essere uno dei 4 moschettieri.

Lo ha raccontato un giorno Paolo Monelli ne "La Stampa" del 24 aprile 1954:

Una mattina, verso la fine d'agosto 1944, andando a visitare con il colonnello brigadiere Moggio, comandante della seconda brigata, i marinai che avevano preso Acqualagna, salimmo a un poggio di qua del fiume, a una casa colonica ove al riparo di certi pagliai stava il comando del IX Reparto d'Assalto. Qui trovai l'uomo più scontroso, più scorbutico del mondo, arido, una faccia scarna come ci fossero andati attorno con la sgorbia. Il colonnello Boschetti ci aggredì subito, il generale e me, che non ci eravamo messi subito al riparo dai pagliai col rischio di scoprire la posizione ai tedeschi sulle colline di fronte. Già i signori fanno la visitina e poi se ne vanno e noi poveri cristi restiamo nella peste".

Boschetti invece, ovviamente, era un comandante coi fiocchi. Aveva, questo sì, una sua particolare concezione sul modo di tenere la disciplina. Il suo epiteto ricorrente era quello di "fessachiotto" e non c'era ardito che non se lo fosse meritato almeno una volta.
Un tale che s'era azzardato a non fargli il regolamentare saluto d'ordinanza s'era visto sbattere contro il muro con una forza inaspettata in quel corpo magro e segaligno.

Un altro era stato preso a calci perchè non s'era messo sull'attenti ed era rimasto con le mani in tasca; si trattava di un soldato della sanità. Da buon trentino era coriaceo e cocciuto come le sue montagne; quando aveva preso una decisione non c'era verso di smuoverlo. Era capace di rispondere al superiore che gli comunicava i piani di battaglia: "No, io faccio così!" "Ma sono o non sono io il..." si sentiva allora sbraitare all'altro capo della linea, così forte da far vibrare tutto il microfono. "Allora taglio il filo telefonico" era l'imperturbabile risposta.

In combattimento non si smentiva. Andava lui stesso a far le ricognizioni sul terreno e non si fidava di nessuno se non dei propri occhi. Poi passava delle ore a studiare la carta fino a che aveva tutto in mente, con il terreno fotografato metro per metro e tutti i dettagli dell'azione perfettamente chiari. Appresi tutte queste notizie su Boschetti da un suo Tenente che un giorno venne a trovare un mio artigliere suo compaesano. Di lui avrò modo di parlare più avanti dato che i suoi arditi diverranno quasi un simbolo e una bandiera per gli italiani combattenti a fianco degli alleati.

Dopo una decina di giorni dalla conquista di Monte Marrone gli avamposti degli alpini si accorgono che una pattuglia tedesca, mimetizzata, in abiti da neve, sta avanzando verso la vetta per vedere com'è la situazione, non sapendo della conquista della vetta da parte italiana.

"Allarme! Tutti pronti, lasciate che i tedeschi si avvicinino", ad un tratto: "Fuoco a volontà". Precipitosa fuga del nemico e dopo la scaramuccia si constata che il nemico ha avuto alcune perdite dai segni lasciati sulla neve dei morti o feriti trascinati via dai compagni.

Pasqua del 1944 e qui riporto ancora un brano di don Giovanni Bonomi
"Avevamo diviso il fronte in settori si da essere volta a volta, tutti i Cappellani presenti per il precetto pasquale. Aiuto vicendevole. Giovedì di Pasqua 1944 - giornata agitatissima per quelli della 6ª Batteria del 2° Gruppo dell'11° Regg. Artiglieria (la mia batteria). Il fronte era sempre fermo ed i tedeschi, che ormai avevano individuato le nostre postazioni, studiavano il momento opportuno e battevano sodo.

Gli artiglieri della 6ª batteria ricordano molto quel giorno: "Padre si ricorda della Pasqua a Cerasuolo? L'ha scampata bella quella volta!" Avevo già celebrato due SS. Messe. La terza era preparata per la 6ª batteria, dietro un rialzo sotto la strada per Cardito, a fianco del paese di Cerasuolo. Avevo già confessato assai la sera precedente ed ora non mi rimanevano che pochi soldati. Alle 10,30 stavo sul posto. Da ogni parte, alla spicciolata, giungevano i bravi artiglieri.

Confesso forse l'ultimo soldato quando un globo di fuoco, con fracasso assordante, ci passò a pochi metri dalla testa. Si abbatte giù nel burrone che sprizzò, come vulcano, pietre e terra con agghiacciante schianto di alberi e cose. Io mi trovai a terra, letteralmente orizzontale, le mani sul capo, le gambe divaricate. Il soldato che stavo confessando era scomparso. Altri quattro o cinque colpi seguirono immediatamente sullo stesso obbiettivo e poi silenzio. Mi alzai, ripresi calma e chiamai il penitente. Mi rispose da una buca ad una decina di metri.

Come in un salto fosse giunto fin là né io né lui ve lo sapremmo dire. In linea si acquista un'agilità, un'elasticità incredibile, direi prodigiosa. "Vieni a continuare la confessione", gli gridai. "Per carità, Padre, un'altra volta!" E non si mosse.
Il fuoco però era cessato e li radunai per la S. Messa. Mi si strinsero tutti in circolo attorno all'altare; elmetto in testa, ben protetti ad ogni accenno d'allarme per scomparire nei rifugi. All'offertorio una salva nemica scosse la terra, sollevò un nuvolo di fumo e di terriccio, ci stordì con un lacerante boato. "Ai rifugi presto!".

Sul posto rimanemmo solo io, il Tenente Moro e il mio attendente. I colpi si succedettero senza interruzioni; una granata scoppiò a pochi metri ed una scheggia, che ancora conservo, passò tra me e il Tenente Moro e si ficcò tra l'altarino e la cassetta di sostegno. Riuscii ad afferrare e salvare il Calice, il resto barcollò e si rovesciò. Riassettai alla meglio e volli continuare la Messa. Notai un tremito convulso dell'attendente, non riusciva più a rispondere. Io tentai di superarmi, di mostrare sangue freddo: malamente ci riuscivo, ero tutto un brivido; balbettavo, le parole mi si inceppavano in bocca, la lingua non si muoveva, ogni parola mi costava uno sforzo come se dovessi catapultarla con la testa.

Il sangue martellava alle tempie, il cuore balzava furiosamente fino a scoppiare. In pochi minuti la S. Messa fu terminata. Iddio mi perdonerà la precipitazione e l'agitazione: era certo questione soltanto di nervi. I tedeschi intanto avevano allungato il tiro ed i soldati, rinfrancati, ad uno ad uno venivano per la S. Comunione. Ad ogni fischio si buttavano a terra mentre io, istintivamente, ritraevo la testa fra le spalle cercando di farmi piccino. Finita la funzione, disfatto l'altarino, ecco un gruppetto di quattro o cinque soldati, (chissà dove si erano andati a ficcare): "Padre, e a noi la Santa Comunione?"

Non avevo più il Santissimo."Per oggi niente", risposi domani mattina ripasserò verso le 8 per andare a Rio Chiaro; "fatevi trovare sulla strada e vi darò la S. Comunione". Quando la mattina dopo scorsero da lontano la jeep si precipitarono sul ciglio e si inginocchiarono. Invece di quattro o cinque erano una quarantina. "Possiamo fare ancora la S. Comunione? Siamo stati buoni ieri". Avevo con me il Sacramento. Così, sulla strada, passando dall'uno all'altro, li comunicai tutti di nuovo. Quanta fede in quei buoni figlioli, quanta generosità!".

Un giorno il mio capitano, stando dall'alto nella sua tenda, per telefono mi chiama: "Domani se vuoi puoi andare a Napoli, preparati che verso le nove passa una jeep con il capitano Grosso che va in città". Sono felice, i soldati mi danno varie commesse da effettuare a Napoli e pronto, vestito a festa, aspetto lungo la strada alle nove precise. Nove e mezza,... nove tre quarti,... dieci,... ma della jeep nemmeno l'ombra. Vedo che dalla tenda del capitano parte, Carlo Gervasini e mi consegna una tabella di cartone. Guardo... c'è il disegno di un pesce. "Ah... fiol d'un can de Salsilli... te me gà ciavà; un cuò xe el primo de april... e mi mona, ghe son cascà dentro come un pitocco..."

Tutti si mettono a ridere e guardando in alto vedo il capitano Salsilli che con il cannocchiale, guarda la scena e ride a crepapelle. Sempre mattacchione il Franco e questo dimostra il nostro spirito e quanto sia allegra e piena di trovate burlesche la batteria dei Fagotti.

La morale..., sia pure in un frangente di tragedia costante come la guerra, è essenziale che la voglia di vita predomini sempre.

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Attacco nemico

Giorno di Pasqua, per noi un giorno come il solito, un pò di dolce al pranzo di mezzogiorno e nulla di più.
Alla sera m'addormento nella mia brandina costituita da un telo da tenda abbottonato e con pali di legno ai lati, il tutto su due cassette di munizioni con sopra un pagliericcio, una coperta sotto ed una sopra.

Verso l'una squilla il telefono: "I tedeschi attaccano Monte Marrone" e subito sento un colpo di cannone dei polacchi posti alle nostre spalle. [1]
Una massa rilevante di tedeschi stava tentando la conquista di monte Marrone. Favoriti da una profonda oscurità, approfittando della nevicata e calcolando sulla poca vigilanza che supponevano per la notte di Pasqua, erano riusciti a cacciarsi sotto le quote.

Anzi, superando lo sbarramento delle mine, un nucleo penetra nei camminamenti degli alpini, seminando panico e disorientamento.
L'allarme fu dato dallo schianto di una bomba a mano e dallo scoppio di una mina. Le sentinelle sorprese sparano, gli alpini balzano lanciando bombe all'impazzata. Tutto il Monte Marrone è in fermento. "I tedeschi sul Marrone, i tedeschi nelle postazioni alpine". Il grido corre, le artiglierie intervengono. Tutto il fronte è in allarme.

I bravi soldati, riavutisi dalla prima sorpresa, si lanciano sugli audaci, affrontandoli nei loro stessi camminamenti.I tedeschi sono schierati in tre compagnie, distanti un 150 metri una dall'altra. La prima riesce a penetrare ma la seconda e la terza sono fermate dal fuoco di sbarramento dell'artiglieria italiana e polacca che attuano un volume di fuoco terrificante, un vulcano in eruzione. In due ore più di 9000 colpi sparati!

Il nemico fu schiacciato, lasciando sul terreno cinque morti, tre rinvenuti subito, due nei giorni successivi ed un maresciallo ferito; sembra però che abbiano subito perdite assai più forti dai segni lasciati sulla neve. All'interno della postazione italiane rimasero due mitragliatrici, tre parabellum, quattro Mauser con dispositivo lanciabombe, materiali vari, bombe e munizioni.

Il maresciallo tedesco ferito rimane intrappolato in un camminamento dove i suoi compagni non riuscirono a soccorrerlo. Dopo la battaglia gli alpini, con animo generoso, lo legano attorno ad una barella e riescono a calarlo giù per uno strapiombo di circa 50 metri e portarlo in salvo. Il tedesco è atterrito nel vedersi sospeso nel vuoto con la paura di precipitare, la manovra è ardua; memore inoltre dei suoi commilitoni che a Monte Lungo avevano ucciso i soldati italiani feriti.

Dopo un'ora di lavoro tutto finisce bene ed il maresciallo, quando è nel piano, cerca il portafoglio per dare dei soldi agli alpini, questi si mettono a ridere e gli offrono del vino. Commosso ringrazia più volte con: "Danke... danke... italiano...". Al mattino quando comincia ad albeggiare gli alpini vedono, davanti ai camminamenti, spuntare un fazzoletto bianco da dietro un albero. Era un tedesco che durante la notte, in tutto quel trambusto, non aveva rischiato di indietreggiare allo scoperto, con la paura di esser colpito dall'artiglieria, preferì starsene buono dietro il riparo e darsi prigioniero al mattino. Le perdite italiane ammontarono a 4 feriti.[2]

Dopo questo insuccesso non ci furono, altri tentativi tedeschi contro il monte Marrone; il 10 aprile il suo possesso divenne definitivo.

Una bianca gallina non so come capitò in batteria e dai soldati mi fu affidata. Di giorno pascolava attorno alla tenda ufficiali, di notte entrava e trovava un giaciglio alla destra della mia brandina. La chiamavamo la "ruffiana", il perchè? Quando entrava un soldato, che normalmente era vestito male, non degnava di uno sguardo, ma se entrava un ufficiale, sempre un pò più elegante del soldato, lo circuiva con continui "co... co... cocodè... co... co" e girava attorno alle sue scarpe.

Quando noi ci si sedevano ai piedi della brandina, saltava sopra ed ascoltava con compostezza i nostri discorsi, girando la testa verso uno o l'altro dei dialoganti, come se fosse invitata al colloquio.

Una cosa impressionante per una gallina. Gli ospiti restavano incantati da simili mosse, le mancava la parola, ma le sue mosse rivelavano il suo parlare.

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Monte Mare

Il 27 maggio assieme a due artiglieri, Marianelli Pompilio e Piana Luigi, con la stazione radio sono comandato,(sempre io), a recarmi in un paesino, non ricordo il nome, ai piedi di Monte Mare.

Caricato tutto il materiale su un trattore parto alle 5 del mattino assieme agli artiglieri. Arrivo sotto il monte ed un maggiore di fanteria mi da le disposizioni: andare assieme al capitano comandante e la compagnia su per il monte, alto 2020 m., e comunicare con il mio Gruppo per eventuali interventi dell'artiglieria.
Si fa presto a dire sali con la fanteria su per il monte, c'è la stazione radio da portare, non sono due telefonini dei nostri giorni che pesano pochi grammi. Sono due scatoloni di latta dal peso di circa 35 chilogrammi ciascuno ed ingonbranti; come fanno i due artiglieri a portare questi scatoloni su per un monte, senza segno di sentiero, con mitra e zaino sulle spalle? Giro per il paese disabitato, entro nella chiesa trovo delle garze insanguinate, "qui si è combattuto" è il mio pensiero, esco e con grande gioia vedo un asinello con la briglia attaccata alla maniglia di una porta, entro, trovo un'unica persona che interrogo e vengo a sapere essere il proprietario del quadrupede.

"Ti sequestro il tuo asino e te lo restituirò a missione finita, ti faccio la ricevuta di consegna". Lui non vuol saperne, ed io proseguo: "Poche storie, se fossimo tedeschi non avresti fiatato perchè ti avrebbero fatto la pelle". Capisce e dopo un pò: "Tenente vengo io assieme al mio asino a portare la radio". Soggiungo: "Guarda che puoi lasciarci la pelle"... lui di rimando: "Non m'importa vuol dire che ho servito anch'io alla liberazione dell'Italia da questi fetenti".

C'incamminiamo, e dopo un pò comincia la salita. Tutta la compagnia in fila indiana. Avanti, due cercatori di mine con l'apparecchio sempre ronzante per captare ogni insidia, dopo due metri il capitano la compagnia, subito dietro il sottoscritto, dopo i due artiglieri, il contadino con l'asinello e via via tutta la truppa.

A metà costa una pattuglia alla nostra sinistra spara, ci fermiamo accovacciati, altri spari per cinque minuti e poi udiamo una voce: "Via libera, i tedeschi si sono ritirati".
Seppi dopo che un nostro combattente era stato colpito a morte, del nemico nessuna notizia.
Si prosegue con il fiato grosso; verso mezzogiorno un ordine fa interrompere la marcia, le nostre pattuglie hanno raggiunto la cima di Monte Mare,... i tedeschi hanno preferito una precipitosa ritirata al combattimento, avendo visto l'entità della nostra forza.

Ritorno a casa con gioia per tutti, compreso il contadino proprietario dell'asinello. Vengo a sapere nel frattempo che la mia batteria, sullo sviluppo degli avvenimenti, si è trasferita a Cerri. Invertiamo la marcia e scesi al piano percorriamo circa sette chilometri per arrivare alla batteria. Nel ritorno camminiamo in fila indiana: l'asino con il contadino, il sottoscritto e dopo i due artiglieri.

Incontriamo a metà strada un automezzo con sopra dei soldati che vedendoci ci salutano festosi per l'avanzata delle truppe italiane. Dopo un pò sento un forte boato e voltandomi vedo una colonna di fumo nero levarsi al cielo. Penso: "Non può essere un colpo di cannone nemico... no... questa è una mina". Mi precipito verso la valle e dopo la curva a circa duecento metri una scena orribile. L'automezzo facendo la curva, con la ruota destra, aveva toccato il bordo della strada, ed era completamente esploso, con corpi di soldati sparsi da tutte le parti, uno era stato scaraventato sopra un albero.

Sopraggiunge gente e con un automezzo portano via i feriti. I morti sono sei. Noi nel salire eravamo passati, sul bordo sinistro della strada, sopra la mina, ma essendo questa graduata per un peso molto superiore del nostro, non era scoppiata. Il pensiero corre allora ai fatti: "Signore ti ringrazio, anche questa volta è andata bene"

Appena rientrato in batteria dò due soldi, dei miei, al contadino mentre Arvat mi preparava la cena: era dalla sera antecedente che non mangiavo, chiesi della gallina bianca. Con il trambusto dell'improvvisa partenza, nessuno si interessò più della "ruffiana" ed allora Gollio Olivo gli aveva tirato il collo.

Il giorno dopo, pranzo prelibato, gallina in brodo. Il fatto mi fece rimordere un pò la coscienza tra i nostri soliti bei propositi e lo stomaco.

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Ringraziamenti

Un doveroso ringraziamento a Gianni Moro per avermi concesso l'utilizzo di una parte dei suoi scritti che qui pubblicati contribuiranno a mantenere vivo il ricordo del sacrificio dei soldati del 1° Raggruppamento Motorizzato e del loro contributo alla campagna d'Italia.

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Note

  1. ^ L'autore indica che furono avvisati alle 01:00 dell'attacco tedesco su monte Marrone; tale orario non coincide con le memorie di un altro soldato presente Gino Damiani dell' 8ª Compagnia Bersaglieri A.A., 29° Battaglione Bersaglieri ciclisti, 4° Reggimento Bersaglieri, il quale indica l'inizio dell'attacco alle ore 03:15.
    Cfr. Ernesto Damiani, DIARIO DI GUERRA - Sergente A.U.C. Gino Damiani, in www.dalvolturnoacassino.it.
  2. ^ In questo scontro ci fu anche un caduto, il Sergente Maggiore Mario Falubba del battaglione Alpini "Piemonte".
    Cfr. Ernesto Damiani, DIARIO DI GUERRA - Sergente A.U.C. Gino Damiani, in www.dalvolturnoacassino.it; Natalino Paone, Primavera 1944, Editoriale Rufus - pag. 195.

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